Sono semisdraiato sul divano di pelle nera nella mia stanza da Superquattro.
Tutto è silenzioso, se si esclude il tichettio di un orologio appeso al muro e il mio respiro.
Sono tre notti che dormo poco e male ed ho un sonno terribile.
Ma quel nuovo casinò che è stato aperto ad Austropoli sta consumando ogni centimetro di me. È lì solo da pochi mesi e già non riesco a farne più a meno.
Ogni tanto mi chiedo perché. Perché vado lì, tutte le sere, dopo che la Lega Pokémon chiude i battenti? Perché sperpero tutto il mio denaro in quei giochi? Perché continuo a giocare, nonostante sappia di perdere e basta?
Perché non riesco a liberarmi da questo demone che mi rode l’anima?
Inizio a mordicchiarmi nervosamente le unghie, già piuttosto rovinate.
Dico sempre questa è l’ultima volta, domani non ci vado più. E la sera successiva penso questa è l’ultima giocata che faccio, l’ultima veramente.
È già un mese che tutte le sere sono le ultime sere.
Non dovrei fare così.
Ripenso alla mia vita prima di arrivare ad Unima: abitavo nella bellissima regione di Johto - che mi manca terribilmente.
La mia famiglia aveva un importante titolo nobiliare, ma poco altro. Non si riesce a mangiare con un pezzo di carta che dice che sei conte o barone.
Da piccolo ho anche patito la fame per diverso tempo, i miei vestiti erano sempre di seconda mano, smessi e rovinati, e in casa non avevamo più nulla che ricordasse la nobiltà: tutta l’argenteria, ogni pezzo di metallo che luccicasse era stato venduto per tentare di ripagare i debiti creati dai miei genitori. Persino alcuni antichissimi cimeli di famiglia, che avevano, oltre che un valore economico, un valore affettivo non indifferente.
Fin da piccolo ho sempre cercato di aiutare come potevo: a dieci anni ho iniziato a vendere bicchierini di acqua o limonata assieme a qualche amico, a tredici facevo piccoli lavoretti per gli anziani del paese dove vivevo - andavo a far la spesa per loro, li accompagnavo per le commissioni, cose così. E mi davano sempre un pochino di soldi, forse anche per pietà nei confronti della mia famiglia.
E poi a sedici anni scoprii il gioco.
Fu un mio vicino di casa più grande a portarmi per la prima volta nel casinò di Fiordoropoli. Ero già abbastanza alto e far credere che avessi diciotto anni era semplice.
Quel vicino mi disse quanto potevo vincere in quel luogo partendo da pochi spiccioli, disse che era facile, e che comunque provare non costava niente.
Quella volta non provai, ero troppo preoccupato di perdere quel poco che avevo messo da parte. Ma tornai in quel luogo con lui e mi lasciai spiegare come funzionavano i vari giochi, quali erano i trucchetti per vincere e mi feci insegnare a giocare a poker.
E infine provai.
Fu la mia rovina.
La mia primissima giocata fu ad una roulette: sotto consiglio del mio amico, feci qualche puntata.
Alla prima persi, ma mi feci convincere a riprovare.
E vinsi.
Quella sera non giocai più, tale era la paura di perdere e il desiderio di portare subito dei soldi alla mia famiglia. Ma si sa come vanno le cose: tornai in quel casinò e cominciai a frequentarlo assiduamente.
Eppure mi accorgevo che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto: ogni volta che cercavo di smettere di giocare, magari dopo una vincita anche irrisoria o una perdita abbastanza corposa, sentivo il desiderio impellente di ricominciare subito. Se cercavo di resistere, cominciavo ad avere nausea e crampi allo stomaco e la sensazione che stessi voltando le spalle ad una vittoria decisiva si impossessava della mia mente.
E allora, per calmare quel turbinio di emozioni, riprendevo a giocare, e i soldi diminuivano sempre di più.
I miei lo scoprirono.
Forse non avevo neanche cercato di nasconderlo bene, forse avevo voluto farmi scoprire per chiedere aiuto, forse ero stato troppo ingenuo, non lo so.
Ma so che erano molto arrabbiati, e lo ero anch’io. Con me stesso. Mi odiavo per aver rovinato così il piccolo patrimonio della mia famiglia, per essermi messo in quella spirale che sembrava senza uscita, per essere stato una delusione e un peso.
Mio padre decise di farmi tagliare una volta per tutte con quel mondo: mi spedì qui ad Unima, nota per non avere nemmeno un casinò. Niente casinò, niente tentazione. Niente tentazione, niente perdite di denaro.
Finora ha funzionato.
Ho viaggiato, mi sono impegnato, ho trovato nelle lotte Pokémon una valvola di sfogo.
All’inizio non è stato semplice: i primi giorni in cui ero qui stavo molto male per non riuscire a giocare. Mi capitava di vomitare, di piangere, di avere crisi isteriche. Ho meditato la fuga spesso, qualche volta addirittura il suicidio.
Ma piano piano ho superato tutto questo e sono arrivato qui. Superquattro della Lega Pokémon di Unima. Mica male.
Ma ora è ricominciato tutto. Quando hanno aperto quel maledetto posto, ho sentito il bisogno di andarci. Mi son detto, è solo un’occhiata veloce.
E adesso sono punto e a capo.
Sono passati tanti anni da quando me ne sono andato da Johto, ma il vizio del gioco è ancora ben radicato in me. Ogni volta che vado mi sento eccitato, desideroso di scommettere con la fortuna e vedere quanto riesco a vincere. Finora ho solo perso.
Ho sempre paura che qualcuno mi riconosca, cerco di passare inosservato, ma non posso non andare. Quando torno indietro mi odio, continuo a ripetermi quanto sono debole e stupido, ma non posso non andare.
Tiro un respiro profondo e mi alzo in piedi, affacciandomi alla finestra.
Il sole sta tramontando. Tra poco la Lega Pokémon chiuderà e...
No.
No, mi ripeto. Stasera devo riuscirci, devo rimanere qui.
Ho bisogno di dormire, ultimamente sono nervoso e irritabile e parlo poco con tutti.
Sono anche un membro della Lega, non posso rovinarmi così! Non posso far vedere agli altri quello che sono veramente. Cosa penserebbero di me?
Mi siedo, tenendo la testa tra le mani.
Potrei chiedere a qualcuno di chiudermi qui dentro in modo da non poter uscire.
Ma forse il mio vizio per il gioco è così forte che non funzionerebbe.
Un fruscio mi riscuote dai miei pensieri.
Liepard è uscita dalla Poké Ball e si sta strusciando sulle mie gambe, facendo le fusa.
Ha capito che ho bisogno di compagnia.
La gratto dietro le orecchie facendo un sorrisino tirato.
- Fammi un piacere, piccola - le sussurro, - se cercherò di uscire da qui stasera, dammi quei graffi che solo tu riesci a dare. Chiaro?... . ... ..
È questa ormai l’unica frase che ripeto prima di andare a letto tutte le sere. Chiamo mia madre e le chiedo di portarmi le medicine. Lei sorride ed esegue, dicendomi che sono diventato bravissimo a ricordarmele.
Ormai non le posso più dimenticare: d’altra parte sono quello che mi tiene in vita.
Senza di esse sarei perduto.
Una volta il dottore ha provato a diminuire la quantità di farmaci che prendo. All’inizio è andata bene, mi sentivo un pochino meglio e pensavo di essere sulla via della guarigione. Ma poi ho preso a sentirmi male di nuovo, a non dormire la notte, a fare fatica a respirare.
È stato un inferno.
Siamo tornati dal medico e ho richiesto a gran voce le medicine che avevo smesso di prendere. E infatti sono stato meglio.
Mi sono anche arrabbiato: il dottore sa meglio di tutti quanto sono malato, non avrebbe dovuto togliermi le medicine. Forse ha voluto farmi stare male apposta.
Da quell’episodio sono diventato molto più scrupoloso: controllo sempre quante scatole di ciascun medicinale abbiamo in casa, calcolo quanto dureranno e avviso sempre con anticipo i miei genitori se devono comprare qualcosa. D’altra parte sto diventando adulto, non sono più il ragazzino che chiedeva aiuto per avere un Pokémon che gli facesse compagnia a Mentania.
Devo essere responsabile e badare da solo alle mie cose, almeno per quello che posso.
Qualche mese fa mi chiedevo se non stessi esagerando, se in fondo il mio corpo non riuscisse a reagire da solo alla malattia che mi affligge, ma ho realizzato in poco tempo quanto stupido fosse quel ragionamento: sono malato fin dall’infanzia, non sono mai riuscito a migliorare e non ci riuscirò mai. Devo semplicemente continuare a prendere le mie medicine per sempre.
Non posso e non devo farne a meno.
Seguo rigidamente la tabella che mi è stata prescritta e non me ne dimentico una.
Quando ero più piccolo non era così, anzi, cercavo di evitarle più che potevo. Spesso mi davano nausea e mal di stomaco, a volte mal di testa, e a me tutto questo non piaceva. Avrei voluto uscire a giocare con gli altri miei coetanei, vivere le loro avventure, magari ottenere un Pokémon tutto mio e viaggiare.
Ma non potevo e provavo molta invidia per i miei amici. Mi capitava di riuscire ad uscire di nascosto di casa e poter andare a divertirmi, ma quelle fughe duravano spesso meno di mezz’ora: i miei genitori erano sempre pronti a riacciuffarmi e riportarmi di peso tra quelle maledette mura che tanto odiavo.
- Lino, quante volte te l’abbiamo detto! Devi fare attenzione. La tua salute è molto cagionevole, se ti succedesse qualcosa non potremmo mai perdonarcelo...
La predica era sempre su questi toni, a volte non la ascoltavo nemmeno. Spesso quelle giornate finivano con me chiuso in camera a piangere.
Poi gli anni sono passati e ho preso più consapevolezza della mia condizione e di quello che comporta. Non condanno il me di qualche anno fa, quando ripenso a tutto questo: ero solo un bambino un po’ ingenuo che voleva giocare e divertirsi come tutti.
Ora la mia vita ruota intorno alla mia malattia: faccio molta attenzione alle mie attività, a non affaticarmi troppo e, soprattutto, a prendere regolarmente le mie medicine.
Anzi, penso proprio di aver bisogno di aumentare la dose: sto peggiorando di molto. Spesso mi capita di svegliarmi di notte tutto sudato o molto infreddolito e durante il giorno ho sbalzi di umore molto forti. Ogni tanto mi sento euforico senza motivo, altre volte sono solo molto triste.
Sono sicuro che tutto questo sia collegato alla malattia, perciò devo solo prendere più medicine.
I miei genitori non sono d’accordo, dicono che prima di fare esperimenti fai-da-te con dei medicinali del genere bisognerebbe chiedere al dottore.
Non penso capiscano: non sanno cosa vuol dire convivere per anni con una malattia. Io lo so, e so che la risposta al mio malessere sono le medicine.
Non c’è altra soluzione.
Stanotte, se mi sveglio e non mi sento bene, le prenderò di sicuro. Mi fido del mio corpo: se mi fa capire che ho bisogno di più medicine, è perché effettivamente servono.
Ormai non mi pesa neanche più l’idea di doverne dipendere per sempre, anzi: mi sento male solo a pensare di rimanere senza.
Eh, salve. Ho deciso di fare una piccola serie sulle dipendenze più diffuse raccontandole tramite i personaggi di Pokémon (lo so, non ve ne eravate resi conto. Meno male che ve l’ho spiegato). Ho scelto i personaggi che mi parevano più adatti e ne ho esasperato alcuni tratti, come ho fatto con Lino in questa fanfiction. Se volete leggere le altre le trovate nell’unica serie che sto portando avanti, quindi è facile.
Alla prossima!
La
prima domanda che ad alcuni di voi sarà venuta potrebbe essere “Che mente
malata deve avere questa qui per prendere i personaggi di un videogioco come
Pokémon e scriverci one-shot che riguardano dipendenze patologiche?”. Anzi,
forse se seguite il blog la domanda non ve la siete nemmeno posta, ma fate
finta di averlo fatto e leggete la risposta.
Dunque,
a mio parere Pokémon è una serie che ha tanto da raccontare. O meglio, avrebbe
tanto da raccontare, se non fosse che il target a cui si rivolge è estremamente
basso. Intendiamoci, di per sé niente di male: è comunque un gioco che riesce
ad appassionare diverse fasce d’età e tanto di cappello per questo. Ma,
purtroppo, molti spunti interessanti per un pubblico adulto si perdono: vengono
edulcorati, ridotti o addirittura censurati.
Nelle
mie fanfiction ho sempre cercato di sviscerare alcuni comportamenti o
caratteristiche dei personaggi, cercandone un’interpretazione anche non adatta
ai bambini: ecco perché ho deciso di iniziare questa piccola serie. In realtà,
all’inizio si trattava di una fanfiction sola, ovvero “Gambling Addiction”, la prima che avete letto, ma poi mi sono fatta convincere ad ampliare la cosa
ad altri personaggi. Non è stato semplice, perché di primo acchito sembrano
quasi tutti personaggi sanissimi esempio di virtù per i giovani Allenatori (e
forse, in virtù di questo, alcuni collegamenti potrebbero sembrare un po’
forzati), ma ce l’ho fatta. Spesso ho semplicemente preso un aspetto più o meno
interessante di un singolo personaggio e l’ho esasperato, immaginando cosa
sarebbe successo se quella caratteristica fosse portata ad un livello
patologico.
Direi
ciancio alle bande, ringrazio Andy Black per avermi concesso l’onore di poter
pubblicare qui e auguro buona lettura a tutti voi!
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