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Andy Black - Unravel Me - 14: (Quattordici) XIV

UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).




Unima, Austropoli, Hotel Continental, 13 Maggio 20XX

Il mattino arrivò dopo di lei, quel giorno.
Yvonne non riuscì a chiudere occhio. E non perché Sapphire l’avesse infastidita; aveva allungato una sola volta la gamba e si erano toccate ma nient’altro.
Non aveva russato né parlato nel sonno. Probabilmente era rimasta con gli occhi aperti per tutta la notte, aveva sospirato e riflettuto su quanto stupida fosse stata, girata dall’altra parte.
Guardò l’orario sul cellulare, erano le sette e mezza. Forse sarebbe stato meglio uscire di casa.
Sì, avrebbe fatto un po’ di jogging e si sarebbe liberata dal peso di ciò che stava succedendo.
Magari sarebbe passata da Ruby e l’avrebbe avvertito che Sapphire, la donna che aveva amato fino a due giorni prima, aveva condiviso il letto con lei.
Si scoprì delicatamente e passò da stesa a seduta. Si alzò rapida e sgambettò verso il bagno, dove scomparve oltre la porta, nascondendosi dagli occhi di Sapphire che intanto la fissavano.
Pensò che Yvonne fosse la donna più bella del mondo, e quasi giustificava Ruby per la sua confusione.
Perché lei sapeva che Ruby fosse confuso. Sapeva che una donna del genere avrebbe avuto tranquillamente la facoltà di cambiare il mondo con un sorriso.
Col suo sorriso, Yvonne, aveva cambiato il mondo di Sapphire, che poca dimestichezza aveva con le cose delicate, e Ruby, per quanto fosse forte, si stagliava da solo come una rosa cresciuta nel deserto.
Si rese conto di non poter dare colpa a Yvonne della fine che aveva fatto; né poteva a Ruby.
Non aveva alcuna prova dell’ipotetica relazione che vi era tra la donna che la stava ospitando e il suo uomo e il modo in cui l’aveva trattato, a mente fredda, risultò assolutamente ingiustificato.
Perché la gelosia non era una giustificazione. La paura di perdere una persona non poteva essere il catalizzatore a muovere l’amore che si provava per essa.
Sapphire non aveva praticamente mai avuto rivali. Fino a quando Ruby viveva a Hoenn non vi erano mai state donne che avevano minato alla loro relazione (se si levava qualche timido tentativo da parte di Rossella, o forse di quella squinternata di Lyris, ma quella pareva più una paranoia di Sapphire che altro), e Yvonne risultava essere il primo tentativo del mondo di strapparle via il fidanzato.
Il quasi marito.
Sbuffò, sedendosi sul materasso e incrociando le gambe. Allungò le mani e stese le dita.
Mancava un anello, quell’anello, a decorarle.
E la rabbia cominciò a salire rapida, fino a esplodere.

“PER QUALE MOTIVO SONO FATTA IN QUESTO MODO?!”

La sua voce rimbombò in tutta la stanza, con prepotenza.
Il rumore dell’acqua, che fluiva dal lavandino, non accennò a fermarsi.
E meno male… pensò. Non aveva voglia di affrontare con quella donna il suo dramma.

*

Sapphire aveva urlato con forza.
Yvonne quasi percepiva la frustrazione di quella donna, la sentiva sulla pelle. Finì di darsi una sciacquata e uscì fuori, indossando il reggiseno sportivo e un paio di slip.
Nonostante fosse maggio, ad Austropoli non faceva ancora caldissimo; sentiva i morsi del freddo aggredire il corpo tonico.
Lo stesso corpo che Sapphire guardava allibita.
Yvonne era davvero troppo bella per potersi permettere una competizione. Ruby avrebbe scelto sicuramente lei, con quei lunghi capelli biondi e il viso grazioso, col seno alto e duro, le cosce toniche e infinite e quel suo essere magnetica, che portava con sé la capacità di attrarre tutti gli sguardi altrui al suo sorriso.
“Io esco. Tu puoi... puoi fare ciò che vuoi... dormi ancora, o fatti un bel bagno caldo. O mangia... bevi”.
Gli occhi blu di Sapphire la irrorarono d’una luce strana. Yvonne si sentì in soggezione.
“Ruby è tornato?”.
“Non lo so, sono stata qui con te tutto il...”.
“No” interruppe lei. “Intendo dire... Ruby ha mai messo piede qui a Unima?”.

Non merita tutto questo. Soffre.

“Non lo so, Sapphire. Io sto lavorando con White braccio a braccio e...”.
“Se andassi da White mi direbbe lo stesso?”.

Ancora quello sguardo. Pareva sapesse, ma che aspettasse fossero le parole di Yvonne a confermare il misfatto.

“Credo di sì”.
“Credi di sì?”.
“Sì. Credo che ti direbbe lo stesso”.
“White potrebbe aver incontrato Ruby?”.
Doveva argomentare. “Ho provato a chiamarlo spesso, negli scorsi giorni, ma non mi ha mai risposto. White è la sua socia. Forse lo ha sentito”.

Se chiama White scopre tutto...

Sapphire storse le labbra e sbuffò, lasciandosi cadere sul letto.
“Ti ringrazio per avermi ospitata, Yvonne”.
“Vado... vado a correre” riprese quella. Non infilò neppure le scarpe, le prese tra le mani e uscì in corridoio, chiudendosi la porta alle spalle. La situazione stava degenerando.

Maledetto il giorno in cui ho deciso di mentire.

Si mosse verso l’ascensore, con le Nike tra le mani e il codino attorno al polso.
Chiamò poi l’ascensore, sperando che arrivasse il prima possibile; temeva che Sapphire aprisse la porta e la vedesse lì. Calzò le scarpe nell’atrio, legò i capelli e s’immise nell’aria fresca del mattino di Austropoli.
Doveva andare in ospedale. Avrebbe cominciato a correre e, qualche isolato dopo, sarebbe salita su di uno di quei taxi gialli di cui tanto stava abusando in quel periodo.

Dalla finestra della stanza, Sapphire vide la donna che la ospitava sfilare oltre la sua vista, fino a che voltò l’angolo.
Era nella tana del lupo. Sorrise, pensandoci. Sorrise amaramente.
Come si era trovata in quella dannata situazione?

Alla ricerca di Ruby... pensò, voltandosi e incrociando le braccia. Aveva fame, e addebitare sul conto di Yvonne tutto ciò che avrebbe mangiato dal frigobar cominciava a sembrare la via migliore per riequilibrare il cosmo. Prese un tramezzino e una diet-coke, cercando d’ammazzare la fame che si portava dietro da più di ventiquattro ore.
“Insalata russa e gamberetti...” sussurrò a se stessa, aprendo la lattina con l’altra mano. Pensò, tra un morso e l’altro, che non era mai stata il tipo di persona che si arrendeva.
Lei imbracciava il gladio e scendeva nell’arena, lottando con tutta se stessa.
La sua tempra e la sua tenacia le imponevano di andare a riprendersi ciò che si era persa per strada, ma la domanda giusta era: come?
Come avrebbe potuto riprendersi Ruby dalle mani di Yvonne?
“Perché è chiaro che Ruby sia nelle tue mani... Ypsey...” disse, muovendo qualche timido passo sulla moquette dell’albergo. Si avvicinò al letto e si sedette, proprio dove quella aveva dormito. Il suo cassetto era davanti a lei.
Non seppe mai cosa la spinse ad afferrare la maniglia e tirare indietro il primo cassetto, ma quando lo fece rimase a fissare per qualche secondo il nido di mutandine merlettate bianche, nere e celesti. Il profumo dei delicati di quella donna era dolce.
Afferrò coi denti il sandwich, per liberare la mano che afferrò una brasiliana, quella celeste. Saggiò sotto le dita il merletto e si perse per un momento nei suoi pensieri: anche lei ne possedeva una simile. La comprò per un’occasione speciale, non ricordava se il ventitreesimo o il ventiquattresimo compleanno del ragazzo, a Verdeazzupoli, assieme a una camicetta dello stesso colore, semitrasparente, che lasciava intravedere i tre nei sul seno destro.
Non ci volle molto prima che il ragazzo gliela strappasse di dosso.
Fu il sesso più bello che avesse mai fatto, fino a quel momento.
Riguardò le mutandine, prima che l’angoscia attanagliasse di nuovo il suo stomaco; lasciò cadere la brasiliana e la immaginò sul sedere di Yvonne. Certamente non avrebbe fatto lo stesso effetto, addosso a lei. Affondò le mani sporche di maionese nel cassetto e spostò gli intimi, fino a toccare il fondo di legno.
Fino a toccare qualcosa.
Incuriosita, poggiò il sandwich sul comodino e prese un sorso di cola, prima di gettare lo sguardo verso le mani: accanto a tanga striminziti e reggiseni delicati vi era un mazzetto di fotografie.
Aggrottò la fronte, Sapphire. Afferrò veloce le fotografie e si poggiò allo schienale del letto.
“Polaroid…” sussurrò, rimuovendo l’elastico in gomma verde che le teneva bloccate.

Pareva che Yvonne ci tenesse tanto.
  
La prima polaroid la mostrava stesa in un campo di tulipani. Il cielo alle sue spalle era terso e il prato sotto di lei la reggeva con forza, come se pesasse poco più di una piuma. Tutto era perfetto, attorno a quella ragazza di poco più di diciassette anni, col vento che le scompigliava i capelli, spostati sugli occhi. Solo il sorriso, con quella perfetta dentatura, risaltava sul suo volto.
I vestiti, stretti addosso a quel corpo di donna inconsapevole, seguivano i capelli e la direzione del vento, come anche i fiori.
Yvonne era una ragazza felice, in mezzo alle montagne.

La seconda polaroid la mostrava più piccola, con indosso un cappello rosa assai carino, abbinato alla gonnellina a balze che indossava. Era accanto ad altri ragazzi della sua età, avranno avuto tutti tra i tredici e i quindici anni. Lei era l’unica che non fissava la camera: col volto solido, guardava l’amico che aveva sulla destra, dai capelli neri, che dava le spalle al fotografo.
Pareva aver detto qualcosa a Yvonne pochi secondi prima che l’immagine fosse impressa sulla carta fotografica.

La terza polaroid la mostrava non molti anni prima.
Ormai era grande, la bella bionda, e stringeva in un abbraccio una donna più grande, dai corti capelli castani con cui mostrava una certa somiglianza. Probabilmente era sua madre.
Entrambe, con lo stesso sorriso, sorridevano cordiali.

La quarta polaroid era una foto artistica, che mostrava un’ombra che oscurava il sole.
Era un’Aeroallenatrice, Yvonne, che con braccia e gambe spalancate sfruttava l’attrito per planare assieme a un Pokémon.
Sapphire non riuscì a intendere che specie fosse, quella.
Era molto bella, quella.

Sfogliò quasi tutte le fotografie, prima d’imbattersi in quella che la fece totalmente trasalire.
Era l’immagine d’Yvonne che baciava un ragazzo, probabilmente lo stesso di prima.
Sapphire s’avvicinò ancor di più alla foto, riuscendo quasi a compenetrarsi nel momento magico che la ragazza di Kalos stava vivendo in quel momento.
Ma una cosa la lasciò sconvolta: il ragazzo, dai capelli neri e fluenti e dagli occhi dal taglio sottile, chiari. Lui era identico a Ruby.

“Chi è questo, adesso?” sbuffò.
Forse era per la somiglianza del suo uomo col ragazzo misterioso della fotografia che Sapphire fu riempita di inquietudine.

L’uomo che cerca Yvonne è uguale a quello che aveva da ragazzina…

Sospirò, prese l’ultimo sorso della diet coke e si rese conto che di aver perso fin troppo tempo.
Doveva cercare Ruby.
Sarebbe passata dall’Atelier.


Unima, Austropoli, West Memorial Hospital

Il pavimento di linoleum dell’ospedale non era in gran forma.
Dopo anni d’onorato servizio, la superficie protettiva aveva cominciato a mostrare i primi segni di cedimento e in alcuni punti stava cominciando a venir fuori la vecchia mattonellatura.
Comprensibile. Quello era il primo ospedale di Austropoli. Quei corridoio erano percorsi ogni giorno da migliaia di piedi.
Anche quelli di Yvonne, che ormai si stava abituando a quelle luci bianche e ai volti spaesati delle persone che sostavano contro i muri.
Superò un uomo che parlava accoratamente al cellulare di quanto qualcosa fosse totalmente senza alcun senso, di come lui non avesse fatto nulla di male con Shawna,e di come lei non fosse minimamente paragonabile alla persona con cui parlava.
Sì, pensò, come no... Gli uomini sono naturalmente portati al tradimento.
Tradire la fiducia... Anche omettere la verità è tradimento?

Era arrivata davanti alla porta, e i dubbi attanagliavano la sua mente.
Valeva la pena macchiarsi l’anima di pece per tenere il cuore intatto?
Ruby valeva l’inferno in cui stava per incatenarsi?
Fu il fremito che le squassò il petto a rispondere per lei: lo amava. Con tutta se stessa.

Doveva mentire, prima a se stessa e poi agli altri.
Doveva farlo per il suo futuro. Per l’amore che provava per Ruby.
Per allontanare l’assalto di Sapphire.

Entrò nella stanza del ragazzo, dove sembrava che il caos di tutto il mondo non potesse attecchire: lì tutto era silenzioso, se si levava il rumore dei macchinari di monitoraggio cardiaco.
Ruby dormiva, steso sul fianco e col braccio destro allungato, quello attaccato al lavaggio.
White era sveglia e digitava qualcosa al cellulare. Alzò gli occhi di colpo quando Yvonne esordì, manifestandosi.
“Buongiorno a tutti”.
“Dorme” riprese lei. “Non mi sono mossa un attimo da qui”.
L’altra sorrise. “Avrei fatto lo stesso. Sei stanca?”.
“Mah, ho dormito un quarto d’ora e poi mi sono svegliata... Lui ha fatto una sola tirata... E ora se permetti esco a fare una telefonata, che mi stanno dando problemi in ufficio...”.
Doveva evitare che tornasse lì. Sapphire l’avrebbe intercettata.
“Sarai stanca...” fece, mentre la vedeva alzarsi e avviarsi verso il corridoio.
“Non ho tempo per dormire”.
“Devi dormire”.
Poi entrambe si resero conto di aver parlato a volume fin troppo alto.
Ruby si voltò, aprendo leggermente gli occhi e mostrando al mondo quelle iridi rosse e profonde, incastonate nel volto provato.
“Ciao Ypsey... Ciao White”.
La sua voce era roca, i capelli del tutto spettinati e la cicatrice che aveva sulla fronte ben visibile.
“Buongiorno, Ruby. Vado un attimo a fare una telefonata” tagliò l’ultima, voltandosi.
Yvonne si limitò a sorridergli dolcemente, mentre il cuore veniva spremuto dall’angoscia che tutto andasse storto. Il rumore dei passi di White si faceva sempre più lontano, prima che sparisse del tutto.
“Come stai?” domandò la bionda, sedendosi accanto a lui e prendendo tra le mani la sua, quella col lavaggio. Ruby la guardò dritta negli occhi e sorrise a sua volta, prima che l’espressione del suo volto mutasse nuovamente, distorcendosi e mutando. Prese a piangere, silenziosamente.
“Mi spiace...” fece, stringendo la mano e le palpebre.
Yvonne ebbe un sussulto al cuore. Gli si avvicinò e gli baciò la guancia.
“Non devi dispiacerti di nulla, Ruby... Stai soffrendo per... per delle ingiustizie...”.
“Non volevo che ti trovassi in quella situazione... Io... sono stato un irresponsabile...”.
“Devi soltanto ritrovare le giuste motivazioni. Sapphire non...”.
“Non nominarla. Ti prego”.
La cosa la rincuorò leggermente. “Scusami... Quando ti dimettono?”.
“Domani”.
“Devi andare via dall’albergo” rincarò lei. “Comincia daccapo e continua con la tua vita qui, a Unima”.
La guardò negli occhi, Ruby, senza mai riuscire a leggere le reali intenzioni della donna. Vedeva soltanto un’insensata paura, unita a una premurosità senza precedenti. “Hai ragione. Dovrò tornare a prendere la roba dalle valigie e...”.
“Manda Whiteley, già oggi. Io e White andremo a bloccare l’appartamento nel palazzo dell’atelier, quello che abbiamo visto l’altro giorno”.
Il ragazzo sorrise, tra le lacrime, facendo cenno di no con la testa.
“White ha tanto da fare... Non posso chiederle una cosa del genere”.
“È la tua socia. Ci tiene a te. È suo interesse”.
Quelle parole risultarono così vere da convincerlo. “Proverò a chiederglielo…”.
“Tu devi solo rilassarti. Chiamerò Whiteley e le dirò di passare in serata in albergo, a racimolare le tue cose, dopo aver ottenuto la certezza che l’appartamento sia tuo...”.
“Whiteley però...” sbuffò il ragazzo. “Okay, è la mia assistente ma... Non voglio chiederle cose del genere. Non potresti andare tu oggi pomeriggio?”.

Se entrassi nella stanza di Ruby e Sapphire mi vedesse probabilmente dovrei fuggire gettandomi dalle finestre.

“Io no... Ho...”.
Sbuffò. Era stanca di tutte quelle bugie. “Io ho un appuntamento”.
Ruby inarcò le sopracciglia. “Okay”.
“Sì, niente di che... roba di lavoro. Con una donna”.
“Tu non hai l’esclusiva con noi?”.

Merd.

“Sì, ma si parlava di altre cose. Non ti preoccupare. Pensa a guarire, tu”.
“Andrai via?” domandò ancora Ruby, preoccupato. “Perché mi spiacerebbe molto…”. Fece parecchia fatica a passare da steso a seduto, ma Yvonne lo aiutò, stringendogli le mani e guardando che il lavaggio non gli fuggisse dal braccio.
“Non preoccuparti” gli ripeté.
“Non ti nascondo che mi sentirei perso, adesso, senza di te”.
La modella sorrise ancora, con dolcezza. Gli si avvicinò e gli baciò la fronte.
“Io sarò qui”.
E poi si guardarono, entrambi sorridenti, come se non si trovassero in quell’ospedale ma al mare, e le onde bagnassero loro i piedi.
E il sole baciasse loro i visi, tanto da costringerli a socchiudere le palpebre. Probabilmente lei avrebbe alzato la mano sulla fronte, per poter vedere meglio il ragazzo che aveva di fronte.
“Grazie” rispose Ruby.
Annuì, Yvonne, semplicemente. Come per dire non preoccuparti, non devi ringraziarmi. Come per dire è un piacere stare qui con te, in riva al mare, col sole a baciarci il viso.
Poco dopo White entrò in camera con rinnovata determinazione. Il trucco sul suo volto era quasi svanito ma i lineamenti non ne uscirono stravolti, risultando comunque delicati, se non più morbidi.
Il trucco la invecchiava.
“Devo tornare in ufficio, c’è una conferenza da organizzare”.
Yvonne guardò Ruby. Lui annuì.
“Ehm... In realtà avrei bisogno di te”.
White, che intanto si stava voltando con già lo spolverino e la borsa tra le mani, si fermò.
Fece per riavvitarsi su se stessa e guardò il degente.
“Che succede?”.
“Io ho bisogno che tu e Yvonne andiate nel palazzo dell’atelier, organizziate in mattinata un appuntamento per... per l’appartamento libero al piano superiore e lo blocchiate”.
La Presidentessa rimase in silenzio e guardò sospettosa la coppia stilista/modella. Batté le ciglia un paio di volte, sospirò.
“Ora?”.
Ruby annuì, sorridendo in quel modo gentile che faceva impazzire Yvonne. E Sapphire.
“Ci andrei io, ma muovermi col lavaggio per Austropoli credo sia scomodo. Puoi fare questo per me?”.
“Posso fare tutto ciò che vuoi...” fece, avvicinandosi ancora a lui. “Ma prima spiegami perché. Insomma... al Continental sei servito e riverito... È successo qualcosa di male?”.
“No io...”.
“Perché l’agenzia è cliente del Continental da anni e non possono permettersi di sbagliare qualcosa con noi...”.
“No, loro sono sempre stati perfetti. Semplicemente voglio una casa, e non una stanza d’albergo. E siccome c’è quella...” guardò Yvonne, che annuì. “... quella nel palazzo dell’atelier, pensavo fosse il caso di cogliere l’occasione...”.
White rimase interdetta, per poi annuire.
“Non possiamo andarci nel pomeriggio?”.
“Io non ci sono, nel pomeriggio” s’inserì Yvonne.
“Vorrei che la vedeste assieme. Siete le persone più vicine che ho qui e mi fido delle vostre impressioni”.
“La conferenza può aspettare per Ruby, vero?” rincarò la modella, sedendosi accanto a lui.
E forse furono quelle parole a far capitolare la Presidentessa. Annuì e si voltò.
“Andiamo” fece, sparendo oltre l’uscio.
Yvonne sorrise. “Vengo. A dopo” sussurrò al ragazzo, baciandolo sulla guancia e carezzandogli la coscia, prima di seguirla.


Unima, Austropoli, Dodicesima Strada e Labour Street

Quando Sapphire abbandonò l’albergo, immergendosi nella quotidianità caotica di quella città, sentì un vero e proprio bisogno di accelerare.
Voleva che quella situazione durasse il meno possibile, voleva trovare Ruby e spiegargli che era stata una stupida a trattarlo in quel modo, che lui fosse l’uomo della sua vita e che niente e nessuno si sarebbe potuto opporre al loro amore.
Perché lei lo amava con tutta la forza che aveva in corpo.
Calpestò il marciapiede con dei primi passi così poco abituati che quasi non sapeva più se stesse camminando sul cemento o su dei chiodi arrugginiti.
Stare a Ciclamipoli per pochi giorni la riempiva di malessere, nonostante fosse una città poco inquinata e immersa nella natura.
Austropoli, in tal senso, rappresentava l’esatto opposto.
Non voleva che Ruby fosse lì. Voleva poter affondare i piedi nell’erba e respirare l’aria pulita dei boschi poco lontani dalla sua casa.
Ma poi ci pensava e capiva che quello fosse il palcoscenico migliore per un uomo come il suo.
Alti palazzi, rumore, attenzione su più e più cose, pilotate e studiate. Il buono, il brutto e il cattivo in un solo posto.
Il bello faticava a vederlo, nelle facce schive della gente che correva senza mai alzare i piedi da terra, che andava di fretta e che non si preoccupava del fatto che lei fosse confusa.
Lì non conosceva nessuno e la cosa non le piaceva.
Il semaforo pedonale non dava il via libera e i taxi sembravano gareggiare tra di loro, correndo come frecce verso un obiettivo, forse tutti lo stesso. Diventavano indemoniati quando la lampadina rossa toccava quella gialla, prima di spegnersi totalmente, e infine morivano, quando il pedonale dava il via libera a tutti quelli in attesa da un capo all’altro delle strisce.
Prese due spallate in sette metri, la bella dagli occhi azzurri.
“Hey!” aveva protestato.
“Va a farti fottere, lumaca” le aveva risposto una settantenne arzilla, sparendo nella folla.
Sbuffò e proseguì, allontanandosi dalla strada e raggiungendo uno di quei mostri gialli in stato di riposo.
TAXI, aveva scritto sulla testa.
Si abbassò, affacciandosi nell’abitacolo dove un grasso uomo dalla barba lunga e dalla testa lucida la fissò, nascosto da un paio di doppi occhiali da sole.
“Scusi… io…”.
“Non farmi perdere tempo. Devi salire?” domandò quello, con voce baritonale.
Gentile.
“Sì…”.
“E allora fallo, e pure in fretta”.
Sapphire aggrottò le sopracciglia e diede un’occhiataccia all’uomo. “Fanculo!”.
Fece per voltarsi e andare via, quando sentì l’altro chiamarla.
“Sali, forza! Scusami se ti ho messo fretta! Ti faccio un prezzo di cortesia!”.
La ragazza si voltò e lo vide sporgersi verso la portiera passeggero, spalancandola.
“Lei è un idiota!” esclamò, sedendosi e sbattendola.
“Turista?” chiese quello, accendendo il tassametro.
“Sì”.
“Noi di Austropoli siamo un po’… ecco…”.
“Maleducati! E sempre di fretta! Non vi è mai venuta voglia di aiutare il prossimo?!”.
La voce della ragazzina rimbalzò nell’intero abitacolo, facendo sorridere dolcemente quel pessimo esemplare d’umano.
“Qui il prossimo al massimo lo inculiamo… Dove ti porto?”.
“Non lo so”.
L’uomo la fissò per qualche secondo e poi sospirò. “Qualcuno dall’alto vuole punirmi, oggi”.
Sapphire lasciò passare l’affermazione e abbassò lo sguardo. “White. So solo il suo nome… organizza eventi, gestisce modelle…”.
“Se non fossi una persona onesta la porterei nel posto sbagliato, mi farei pagare la corsa e scapperei via”.
“Non parli, non riesco a pensare” ribatté quella, alzando la mano verso di lui e sbuffando. “Agenzia di qualcosa”.
“Black and White Agency, sulla Second…”.
“Sì!” esclamò Sapphire. “Quella! Devo andare negli uffici e parlare con lei!”.
L’uomo mise in moto e s’immise con arroganza sulla corsia; l’auto che lo seguiva rispose suonando il clacson e lui reagì alzando il dito medio.
“Impara a guidare, coglione…”.
“Siete tutti troppo incazzati” osservò la donna, portando le mani sulle ginocchia. “Non vivete male?”.
“Questa è Austropoli… Come ti chiami?”.
“Sapphire”.
“Uh, Sapphire. Che nome esotico... Da dove vieni, di preciso?”.
“Hoenn…”.
Il taxi virò sulla quattordicesima e s’immise in un flusso di traffico che durava chilometri. Il pilota sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
“Ma porca puttana…”.
“Faccio prima a piedi…”.
“No, arrivati allo svincolo per la sessantaquattresima andremo di là…”.

Ci mise quarantacinque minuti, ma alla fine Sapphire riuscì ad arrivare fuori l’alto palazzo.
“Sarebbero trentaquattro dollari, ma dammene venti. E scusami per prima”.
La ragazza aprì lo zaino e diede una banconota all’uomo, quindi lo richiuse e uscì sulla macchina. Il taxi sfrecciò via alla velocità della luce, lasciandola davanti l’alto palazzo.
Alzò il volto, coprendo con la mano gli occhi baciati dal sole.
La grande insegna B&W MODELING AGENCY svettava sull’intera Austropoli, guardandola dall’alto verso il basso. Le persone che percorrevano il marciapiede per l‘intera sua lunghezza parevano minuscole formiche, se messe a confronto. Non aveva mai visto, a Hoenn, un edificio così alto. Pensò che all’interno vi fossero moltissime persone.
Salì gli scalini, col cuore che cominciò a battere forte, fino a quando non entrò, attraverso la porta automatica girevole.
Entrò e la prima cosa che sentì fu una folata d’aria fresca sul viso, come quelle che la colpivano quando raggiungeva il faro sud di Verdeazzupoli.
Ma non c’era l’odore del mare, tutt’intorno a lei. Il profumo che la investì era dolciastro e piacevole, a tratti stucchevole.
“Buongiorno” le disse una sorridentissima giovane in tenuta da hostess azzurra.
“Pan Am…” sussurrò sottovoce. Scrutò velocemente la figura della moretta dalle grosse labbra e ne lesse il nome. “Ciao Jessica”.
“Benvenuta alla sede di Austropoli della Black and White Agency…” aveva invece detto un’altra, alle sue spalle. E non riuscì a nascondere la sorpresa quando sulla targhetta che aveva sul seno lesse il nome Kimberly.
Ricordò.
“Grazie…” fece, squadrandola col volto granitico e gli occhi ben aperti.
Ruby lavorava con Yvonne e altri animali che poco si allontanavano da quell’ideale della donna perfetta, irrealizzabile e falso che era penetrato nell’immaginario comune.
Ruby le vedeva tutte nude.
Ruby le svestiva e le toccava.
Sapphire stava per prendere la testa di Kimberly tra le mani, per sbatterla contro il pilastro su cui quella poggiava.
“Posso aiutarla in qualche modo?”.
La voce della donna era limpida e gioviale. Il suo viso pieno di luce.
Forse era più bella di Yvonne, pensò, per poi ritrattare subito dopo.    
“Cerco… White”.
Lei annuì.
“La Presidentessa White, certo. Ha un appuntamento?”.
Il vuoto dopo quella domanda risucchiò Sapphire, che lasciò sedimentare quelle parole, fino a quando la testa di Kimberly, riccioluta e fulva, non si mosse, come a ribadire la domanda.
“Ehm… no. Ma siamo amiche di vecchia data. Dexholder entrambe, sa… Pokédex…”.
“Sapphire Birch, vero?” chiese quella. “La fidanzata di Ruby”.

Non più. Mi ha lasciata perché sono il corrispettivo femminile di un coglione.

“Sì…”.
“Si accomodi sulle nostre comodissime poltroncine, parlerò con la reception per vedere se può riceverla al momento. Posso offrirle qualcosa di fresco?”.
“Sto a posto così, grazie. Aspetto qui”.
La vide camminare con compostezza ed eleganza fino al banco sulla sinistra, sfilando per una folla immaginaria che l’avrebbe senz’altro applaudita. Si fermò a parlare per qualche secondo, annuì e poi riferì qualcosa. Infine tornò indietro, facendo un cenno di saluto a un uomo in giacca e cravatta che la salutava.
“La Presidentessa non è ancora arrivata in ufficio; ha avvertito che stamattina non sarebbe passata in ufficio per questioni di affari. Se vuole può lasciarle un messaggio, glielo faremo recapitare”.
“No, no” sbuffò Sapphire, portando le mani ai fianchi e abbassando la testa. “No. In realtà cercavo lei perché starei cercando Ruby…”.
La cosa lasciò Kimberly leggermente sorpresa, e a ragione. Insomma, era il suo fidanzato e non riusciva a trovarlo, la cosa era strana.
“Il telefono… non risponde” cercò di giustificare lei. “E non è tornato in camera, nell’albergo dove pernotta”.
“Oh. Okay… Beh, ha provato a contattare Yvonne Gabena? Lei è la top model dell’Atelier”.
Ecco l’idea.
“L’Atelier! Brava!” esclamò Sapphire, sorridendo e stringendo entrambe le mani alla donna che aveva davanti. “Dov’è?”.
“Sulla Main…” rispose l’altra, confusa.
“Grazie!” disse, sfrecciando indietro e tornando alla porta girevole.


Unima, Austropoli, Main Street, Appartamento 19C

“Perfetto, invii il contratto di locazione allo studio del mio avvocato” fece White, stringendo la mano a Tyler Bossman, l’agente immobiliare dai denti più scintillanti di tutta la città.
Era sicuramente il più noto, dato che il suo volto era stampato su decine di cartelloni piantati sull’intero lungomare.
Capelli castani tirati all’indietro, laccati, volto solido e sorriso delle migliori occasioni tatuato sul viso.
Sembrava possedesse un intero guardaroba con lo stesso abito, uno per ogni giorno della settimana. Ruby probabilmente si sarebbe soffermato sulla sua cravatta, una Marinella blu con righe argentate.
“Sono sicuro che il signor Normanson potrà apprezzare ognuna delle preziose rifiniture che il precedente inquilino ha personalmente voluto fossero installate.
Yvonne alzò il mento, con le punte dei capelli che le carezzarono le natiche.
“È meraviglioso. Sono sicuro che Ruby sarà felice di stare qui”.
White annuì, stanca e risoluta. Voleva che quella storia finisse velocemente, voleva bere qualcosa di pesante, ingoiare due o tre compresse e dormire con la mascherina abbassata sul volto.
“Sarà il mio legale a gestire la questione, ha già avuto disposizione di versare la caparra per bloccare l’appartamento.
Tyler Bossman sorrise e strinse la mano alle ragazze, accompagnandole gentilmente alla porta.
“Credo che non ci saranno problemi. Prendetevi il tempo che vi serve e, appena possibile, mi faccia girare la distinta di versamento dalla sua banca”.
Aprì la porta, le due uscirono fuori e si avviarono all’ascensore.
“Spero che a Ruby vada bene...” disse tra i denti la Presidentessa. “Sinceramente non so come aiutarlo se non sostenerlo con queste piccole cose ma non posso lasciare l’ufficio ogni volta che va all’ospedale...”.
“Già siamo a due...” sospirò Yvonne, prenotando l’ascensore. “Io cercherò di stargli quanto più vicina possibile... Soprattutto ora che Sapphire non c’è più”.
White voltò testa e la fissò, seria. “Che intenzioni hai?” domandò, dopo aver lasciato che il silenzio si prendesse la scena per qualche secondo.
“In-intenzioni?! Che intenzioni dovrei avere, scusa?! Ruby stava per morire e...”.
“Ruby adesso è single e tu hai più di una volta espresso il tuo apprezzamento per quello che è il tuo capo. Ti rendi conto del conflitto d’interessi che andresti a creare?”.
Yvonne abbassò la testa, giusto per un attimo. “Io non ho fatto ancora nulla”.
“Per quanto mi riguarda puoi fare quel che vuoi, te lo ripeto” disse l’altra, portando la mano destra alla fronte e stropicciandosi gli occhi. Sbadigliò, con garbo infinito. “... Ma non devi rovinare nulla. Non devi guastare nulla. Ruby è come una macchina che estrae oro da una montagna di merda e tu sei il suo strumento. Vi voglio un bene dell’anima ma questi sono affari... Le stronzate alla Friends lasciamole in stanza, sulla via cavo”.
Yvonne rimase spiazzata. Se White avesse saputo le reali intenzioni che serpeggiavano nella testa della sua modella, con ogni probabilità avrebbe costretto Tyler Bossman a uscire nuovamente dalla casa che Ruby avrebbe acquistato, per capire chi stesse urlando come una forsennata.
“Va bene”.
“Chiama Whiteley per vedere se ha finito. Poi dovrò andare necessariamente in ufficio”.
E la cosa non andava bene.
“Dovresti andare a riposare”.
“Chi dorme non piglia pesci”. L’ascensore spalancò le proprie porte davanti a loro. “Chiama Whiteley”.
Era costretta ad affidare la propria sorte nelle mani del fato. Doveva sperare che Sapphire fosse già stata nella sede dell’agenzia o che fosse stata così stupida da non essere andata a cercare White per chiedere informazioni.
La pesantezza la colse più forte di prima, quando si mise nei panni della contendente: la immaginava a girovagare senza una meta ben precisa in una città che non era la sua, col dispiacere in corpo che le erodeva gli organi dall’interno e la paura di non riuscire a riparare al suo errore.
Rimasero in silenzio fino a quando non uscirono in strada.
Se avesse atteso trenta secondi in più avrebbe incrociato Sapphire, che tenace, avrebbe spinto per salire fin su in atelier, per ricevere dagli stilisti alle scrivanie la notizia che effettivamente no, Ruby non era mai stato in Atelier, in quei giorni.

“È a Hoenn dalla sua donna...”.
“Sono io la sua donna...”.

Sconforto. La flebile speranza che Sapphire covava aveva rotto il guscio ed era volata via, senza che lei se ne accorgesse.

*

La folla scorreva confusa lungo Main Street. C’era rumore, per strada.
“Whiteley... Sono Yvonne”.
“Hey, ciao Ypsey. Sono in camera di Ruby, come mi hai chiesto sto…”.
“Okay, va bene, lo so, grazie. Solo… cerca di far… di far presto e…”.

Sbuffò, la bionda.
Era stanca.
“Ypsey?” domandò la donna, con quella vocina metallica che lo stesso riusciva a esprimere infinita dolcezza.
“Sì, Whiteley. Cerca di far presto e non dar confidenza a nessuno… Ruby non dovrebbe possedere altro che vestiti e poco altro. Porta tutto in Atelier e aspettiamo che si riprenda”.
Certo Yvonne”. 

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