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Andy Black - Unravel Me - Quindici. 15 (XV)

UNRAVEL ME.
ovvero risolvimi, nel senso di districami, sbrogliami.

UNA FRANTICSHIPPING (ma per finta) di Andy Black (ma lo sapevate).



Unima, Austropoli, West Memorial Hospital, 13 Maggio 20XX

Yvonne…”.
Il cuore della modella prese a battere a spron battente quando la voce di Sapphire entrò nella sua testa. Aveva paura.
“Oh… Sapphire?”.
Sì, alla reception mi hanno dato il tuo numero, ho detto che eri mia amica…”.

Già. Scusa, “amica”.

“Hai… h-hai fatto bene” disse, poggiando la testa alla parete del corridoio. Girò la testa quando la rotella del carrello che portava il cibo ai degenti cigolò, proprio accanto a lei. L’infermiera che lo spingeva rimase a fissarla per qualche secondo, dopo che, diversi minuti prima, le aveva già intimato di lasciare il reparto.

“L’orario delle visite è finito”.
“Vado via subito, saluto il mio amico ed esco”.

“Dove sei, adesso?” aveva domandato quella, con la voce turbata.
Passò qualche secondo, che Yvonne sfruttò malamente, cercando di trovare la forza per mentire ancora.
“Sono con… con delle amiche. Ruby?”.
Non lo so” tagliò netta la ragazza di Albanova. Passò qualche secondo, in cui la sentì piangere sommessamente. “Non l’ho trovato, Yvonne. Sono…” respiro poi. “Sono andata da White, ma lei non c’era, era fuori. Neppure in Atelier lo hanno visto e io… Cazzo!” urlò, lasciandosi andare alle sue emozioni. “Io non so che fare! Sono chiusa fuori la porta della sua stanza, cercando di non addormentarmi, per lo sconforto, e sperando che appaia all’improvviso dalla porta dell’ascensore! Ma cosa cazzo dovrei fare?! Arrendermi e lasciar perdere?!”.
A Yvonne mancò il fiato. Sapphire piangeva, cercava l’uomo che era a tre metri da lei e soffriva perché non lo trovava. Non era nella sua natura essere così meschina. Odiava ciò che stava facendo.
Non lo so, Sapphire. Io… io non so che dirti. Ma credo che…”.
Che cosa credi? Sai dov’è?! Ti prego, aiutami! Sto vivendo con la consapevolezza di essere stata una stronza e voglio porre rimedio! Non ce la faccio più a sopportare questo peso sullo stomaco!”.
“No… Non so dov’è”.
Che cosa dovrei fare, allora!” gridò forte l’altra, costringendola a staccare il cellulare dall’orecchio.
“Stanotte non tornerò… telefonerò alla reception e dirò loro di farti entrare in camera. Se domani mattina non lo troverai in camera vai a Ponentopoli e torna a casa tua”.
E lasciare che tutto finisca così?! Yvonne, io lo amo!”.
La bionda sorrise amaramente, più silenziosamente possibile. Avrebbe voluto ribatterle a tono che anche per lei era lo stesso.
“Lo so. Ma sono già tre giorni che manca e… e forse è andato via. E quindi dovresti provare a staccare da questa situazione, lasciargli un messaggio che potrebbe leggere nel caso tornasse, col tuo recapito e…”.
Lo ricorda, il mio numero. Sa qual è. Non l’ho mai cambiato”.
“Immagino…” sospirò.
Non voglio andare via”.
“Puoi farlo, oppure no. Non credo sia una cosa che devo dirti io, ma combattere una guerra ormai persa… Tu non puoi farcela”.

Per un secondo rivide in slow-motion la scena appena vissuta; non riusciva a credere di esser riuscita a pronunciare quelle parole a una ragazza in lacrime, che soffriva per amore.
E non come aveva sofferto lei, per amore, quando Ruby le aveva detto che tra di loro non sarebbe mai nato nulla, dato che avrebbe sposato Sapphire.
No.
Quella della ragazza dagli occhi blu era una sofferenza viscerale, scaturita dall’aver perso qualcosa che credevi sarebbe rimasto tuo per sempre, nonostante tutto.
Nonostante tutti.
La sentiva piangere, dall’altra parte della cornetta, e continuò ad ascoltare, rispettando un religioso silenzio, fino a quando quella non attaccò.

Anche Yvonne stava piangendo.
Era stata una stronza. Si odiava per quello che aveva fatto a Sapphire.
Si sentiva colpevolissima, lì, nel corridoio di quell’ospedale, con la faccia contro il muro e il cellulare ancora attaccato all’orecchio, nonostante il time-out del display lo avesse fatto spegnere.
Immobile e stanca, impaurita dalla situazione.
Se Ruby avesse scoperto quella situazione non le avrebbe più parlato. Se lo avesse fatto Sapphire con ogni probabilità l’avrebbe riempita di calci nello stomaco.
Però lei non riusciva più a vivere in quel modo, e Ruby era diventato un premio per tutte le sue sofferenze.
Nella sua mente ripercorreva tutte le fasi della propria vita da quando aveva messo piede a Unima, e mai, ma proprio mai, aveva vissuto dei momenti belli come quelli che aveva passato con Ruby.
A partire dalla scortesia della gente, così differente da quella di Kalos, fino ad arrivare agli uomini che non andavano oltre l’apparenza, oltre le gambe e il reggiseno.
Uomini che non l’avevano mai guardata negli occhi e che miravano al centro del bersaglio cercando di colpirlo da sei chilometri di distanza.
Yvonne era una donna bella e sola.
Bastava soltanto starle vicini per vincere il primo premio.
E il primo a farlo fu Sergei.
Sorrise amaramente, pensando agli abusi che subì da quell’uomo di merda. Una volta la picchiò, la piegò e la violò.
Sentiva ancora il dolore quando passava le mani tremanti sui lividi.
Yvonne sognava soltanto l’America.

Questa aveva la faccia di Ruby.

Un uomo delicato come lei, forte come lei, con la stessa tenacia che aveva avuto quando aveva raccolto il coraggio a due mani e aveva lasciato il passato alle spalle, sperando di realizzare un futuro migliore.
Quell’uomo non voleva nulla da lei. Anzi, combatteva contro se stesso perché voleva starci assieme e non poteva.
Un uomo che sapeva cosa Yvonne offrisse, che non la considerava alla stregua di una bambola, e che la rendeva più bella ogni volta che s’incontravano.
Si sentiva valorizzata, lei.
Capiva perché Sapphire stava lottando con le unghie e con i denti per non perderlo.
E lei, Yvonne, che aveva sofferto abbastanza, aveva capito che Ruby fosse il lasciapassare per realizzare la vita che le spettava.
Perché, nonostante tutto, lei era una dei buoni.
E i buoni vincono sempre.
Quindi fanculo Sapphire, Ruby era l’unica persona che le aveva teso la mano senza nascondere una pistola dietro la schiena. E Yvonne l’avrebbe afferrata, quella mano.
E non l’avrebbe lasciata per nulla al mondo.

Respirò e annuì, pulendo coi polsi le lacrime dal viso, indossò il sorriso della domenica e rientrò nella camera di Ruby.
Lui stava meglio. Era seduto, con le gambe incrociate e l’attenzione fissa sul cellulare.
Quando la percepì vicina alzò gli occhi e le sorrise.
“Sei qui”.
Yvonne annuì, senza riuscire a nascondere il turbamento che aveva spaccato in due il suo animo.
“Cos’è successo?”.
Doveva continuare a mentire. Doveva portarsi dietro quel fardello per sempre, prima di capire che non fosse la cosa giusta da fare.
E quindi decise di dire la verità. La sua.
“Ho passato l’intera giornata con la paura di perderti”.
Gli occhi rossi di Ruby si abbassarono per un momento, deviarono dalla traiettoria che li faceva incontrare con quelli della bella per poi fissare le mani.
Posò il cellulare e sospirò.
“Mi spiace”.
“Anche a me. Ma la supereremo”.
Il ragazzo la guardò, sorridendo solo col lembo destro della bocca. Poi allargò le braccia e sospirò.
“Vieni qui”.
Non se lo fece ripetere due volte, Yvonne, che impattò con delicato vigore contro il suo petto e s’inebriò del suo profumo.
Dalla sua bocca caddero dolci parole.
“Ho avuto paura di non poter più sentire il tuo odore...”.
“Io sono qui”.
Yvonne alzò gli occhi, quelli di Ruby erano lì a fissarla. Le sue labbra erano a pochi centimetri.
“Stanotte starò qui con te”.
Il ragazzo fece cenno di no. “Ma figurati... Sto benissimo. Potrei già tornare in camera, se i dottori mi lasciassero andare...”.
“E in quel caso dovresti venire in camera mia, dato che tu non dormi più al Continental...”.
Aveva omesso, la bionda, di dire che avrebbero entrambi dovuto condividere il letto con Sapphire.
“Già... Sono andato via dall’hotel, dimenticavo. White ha detto che la casa è bellissima”.
“Lo è” sorrise dolcemente Yvonne, carezzando il viso spinoso del ragazzo. “E devi raderti”. Lo fissò negli occhi. “Stasera ti rado”.
“Non ti piacciono gli uomini barbuti?” domandò l’altro, sorridendo.
“Assolutamente no. Abolirei ogni pelo del corpo dal naso in giù”.
Quello rimase stupito.
“Ti facevo tipo da baffi anni settanta”.
Oui, Magnum P.I., au revoir...” sfotté quella, portandosi l’indice sopra le labbra. “Ti starebbero male”.
“Boh. Difficilmente qualcosa mi sta male” ribatté quello, inarcando il sopracciglio.
Sorrisero ancora, parlarono per qualche minuto, poi lui si adombrò.
Yvonne sapeva che c’era Sapphire, nei suoi pensieri.


Unima, Austropoli, Hotel Continental, 14 Maggio 20XX

Lacrime e occhi chiusi, poi aperti, sospiri.
E poi girarsi tra le lenzuola, a destra e a sinistra. Avere caldo e scoprirsi, ma maggio era caldo solo quando hai caldo e quindi un’ora dopo le coperte erano nuovamente poggiate sul suo corpo.
Si sentiva minuscola, nel letto di Yvonne.
Sapphire lo sentiva. Lì tutto sapeva di lei. Vagamente anche di lui.
Scacciò i brutti pensieri e si voltò per un’ultima, ennesima volta; il sole era sorto senz’avvertirla.
Eppure era stata ad aspettarlo per quasi tutta la notte, con la sensazione di chi avesse appena perso l’occasione della vita nella testa e quel vuoto inspiegabile ed incolmabile nello stomaco, in cui lei cadeva ogni volta che si affacciava dentro se stessa, per capire cosa le stesse accadendo.
Mancava un pezzo di lei, lo sapeva.
Lo sentiva.
I sospiri sostituivano le parole, e le labbra schiuse lasciavano fuoriuscire il veleno che stava covando, e che l’aveva trasformata in un guscio moribondo pieno di un liquido nero, denso e molto freddo.
Soffriva.
Se solo avesse avuto la forza per affrontare quella situazione sarebbe andata a ripararsi in un posto sicuro.
Per riposare e lucidare le ossa. Per prepararsi ai nuovi giorni senza lui.
Ma non riusciva ad allontanare quei pensieri così neri, e grigi, e rossi come il sangue e le rose quando fiorivano. Tutto circolava nella sua testa così velocemente da non riuscire più a uscire da quell’acquitrino, in cui era affondata fino alle ginocchia.
In cui continuava a scendere.
Sospirò ancora. Una lacrima stanca si poggiò sul cuscino candido di Yvonne.
Il suo profumo pervadeva tutta la stanza. Era dolce, troppo dolce.
Allungò la mano verso l’altra parte del letto, dove aveva preso l’altro cuscino e lo aveva cinto con le cosce.
Dove una volta qualcun altro avrebbe dovuto poggiare la testa c’era soltanto la camicetta da notte di Yvonne, semitrasparente, stropicciata.
Anche quella volta, la presenza ingombrante della principessa d’oltralpe la limitava, la braccava sul bordo del letto.
Sei solo la camicetta di una puttana…, pensò, spingendola con la mano destra e facendola finire per terra.
Solo lei su quel letto, quel giorno.
Solo lei.
Sul comodino di Yvonne non c’era nient’altro che l’abatjour spento. Oltre vi era la finestra spalancata, dalla quale entrava l’aria primaverile frizzantina e le voci urlanti di chi passeggiava sui marciapiedi di Austropoli.
In sottofondo le auto si muovevano. Qualcuna suonava il clacson. Urla, battibecchi.

Cosa cazzo urlate a fare…

Lì non era come Hoenn.
Lì non ci si aiutava a vicenda. Lì ti rubavano l’orologio.
Austropoli era stata la sua rovina e le doleva ammetterlo. Forse avrebbe dovuto prendere il mondo di Ruby per mano e accompagnarlo nelle peripezie della grande mela, lasciando indietro i suoi sogni, le sue necessità.
Dimenticando il suo nome, il suo volto.
Diventando un’altra persona.
Ruby aveva totalmente dimenticato della natura e degli alberi che col vento picchiavano sulla finestra. Aveva dimenticato delle piogge brevi e dell’odore dell’erba che saliva.
Aveva dimenticato le tempeste quando in inverno bastava un bicchiere di vino e il camino acceso per trasformare una serata qualunque in una in cui lei amava lui e lui amava lei.
In cui la notte diventava giorno e il giorno, quello vero, cominciava troppo presto, e maturavano entrambi l’idea che andare a dormire così tardi era una pessima idea.
Ruby aveva azzerato le proprie esperienza e aveva deciso di ripartire da zero.
E lei non apparteneva alla nuova vita, fatta di eventi mondani e impegni lavorativi in cui lei non riusciva a farsi strada.
Non aveva nulla in comune col nuovo Ruby.
Yvonne invece, che viveva nel suo stesso mondo, non aveva avuto problemi a entrare nella sua vita.

Ruby aveva dimenticato tutto. Aveva dimenticato lei e il mare.
Aveva dimenticato di averla lasciate in riva, quando il vento soffiava e la tempesta non era molto lontana.
Lei era ancora lì. Bloccata a osservare il ciclo delle onde, che si avvicinavano a lei e poi si allontanavano di colpo.
Sarebbe stato meglio se il mondo avesse rallentato.
Sarebbe stato meglio se avesse dimenticato tutto ciò che sapeva, perché non avrebbe avuto paura di restare da sola contro la tempesta, e non si sarebbe immersa nelle acque buie e profonde che aveva di fronte, passando ciò che rimaneva della sua vita a cercare di recuperare ciò che aveva perso.

Invano.

Sospirò.
Aveva passato metà della notte a bussare alla stanza di Ruby, con la gente che la guardava in silenzio e passava oltre.
Aveva deciso di andare a riposarsi da Yvonne quando s’era accorta di aver perso le forze, svegliatasi non molto distante dall’alba con la schiena contro la porta e le gambe piegate.
Con le ciglia incollate dal mascara sciolto e le guance sporche di polvere e lacrime.

Sapphire Birch… Non hai più dignità.

Lo pensava, se lo ripeteva incessantemente, e intanto la testa scoppiava.
Si alzò lentamente, stanca di tutta quella storia. Sentiva una fiammella divampare nel suo animo, col nervosismo che aumentava sempre di più.
Allo specchio, il grosso specchio che aveva raggiunto, vedeva lo spettro di una donna forte.
Un tempo.
Una settimana prima era la regina del mondo, la figura immobile che aveva davanti. Una settimana prima non esisteva quel coltello che le aveva bucato il petto e che non aveva il coraggio di rimuovere.
Sbuffò. Era difficile per lei combattere con certe consapevolezze e capire che, effettivamente, avrebbe dovuto andare a recuperare la palla in fondo alla rete.
Eppure le sembrava che tutto stesse andando per il meglio, che la difesa tenesse e che tutto fosse sotto controllo.
Stava gestendo tutto per il meglio, nonostante la distanza dall’uomo che amava, e la sua vicinanza con la donna più bella del mondo.
Nonostante l’effettivo disinteresse di Ruby che era aumentato giorno dopo giorno, costruendo un muro che lei, quel giorno, non sapeva come scavalcare e dietro il quale lui si era nascosto, perché sostanzialmente si era accorto che non era Sapphire che voleva al suo fianco.
No.
Sapphire era una zotica. Una sporca ragazzina vestita di fango e foglie che viveva come la scema del villaggio in un posto dimenticato dal padreterno.
Ruby ambiva a ben altro. Ruby ambiva a donne alte e bionde, con qualità fisiche che lei poteva vedersi addosso solo nei sogni, con una classe che non avrebbe acquisito neppure con impegno e lavoro decennale e con una grazia innata.
Senza il seno cadente. Senza le smagliature sul culo.
Ruby ambiva a vivere in un hotel, tutto spesato. Ambiva all’Atelier nella zona più in della città.
Ambiva a leggere il suo nome sulle schiene di tutte le donne più famose che avessero mai calcato una passerella.
Ambiva ad alzare loro le zip degli abiti che le accompagnavano verso il successo.
Ambiva all’ambrosia che avrebbe bevuto al tavolo degli dei.
Era di un’altra razza, di un altro livello.
Cosa doveva farsene, lui, di quella ragazza svampita e spettinata che fissava il proprio riflesso allo specchio, quasi sperando di non essere ciò che vedeva.
Abbassò per un attimo lo sguardo, lei. Si guardò le mani.
C’erano ancora tracce dello smalto, prima che lo levasse tutto coi denti. Nervosismo, lo faceva sempre.
“Cazzo…” sbuffò, sentendo la pressione aumentare sempre di più nel suo petto.
Forse aveva ragione la stronza: aveva perso.
Forse non c’era davvero speranza.
Ma niente le vietava di prendere una boccata di coraggio e riprovare per l’ennesima volta a se stessa di aver fatto davvero il massimo per vincere la partita.
Camminò lenta verso il bagno, passando da uno specchio all’altro. Si spogliò ed entrò sotto il getto bollente della doccia.
Quando ebbe finito di lavarsi si rese conto che la resa dei conti fosse più vicina di quanto immaginasse, e si ritrovò di nuovo davanti allo specchio, con la trousse di Yvonne tra le mani. Cercò di truccarsi come meglio poteva. Le mani tremavano e sostanzialmente non era mai stata bravissima a fare quelle cose, ma a Ruby le donne non piacevano sporche di fango e quindi passò il rossetto rosso sulle labbra screpolate e allungò le ciglia col mascara.
Riuscì quasi a partorire un sorriso quando aprì l’armadio della donna, cercando qualcosa che potesse fare al caso suo.
A Ruby non andavano bene, le donne vestite di foglie. No, Ruby voleva le giarrettiere, le gonne a balze, le camicette.
I boccoli.
Pazientemente cercò qualcosa della sua taglia, trovando poco o niente ma adattandosi.
Si guardò.
Non si riconobbe.
A Ruby però piacevano così, le donne. Come Yvonne.
Si mosse a piedi scalzi verso la porta, col cuore che batteva forte e la mente che si proiettava a quando la sua mano avrebbe bussato più e più volte contro la porta accanto, che si sarebbe aperta mostrando lo sguardo sorpreso di Ruby.

“Che ci fai qui? E come ti sei conciata?”.
“Ho capito i miei errori… Voglio essere la donna di cui sarai fiero per il resto della vita. Sposami…”

E si sarebbe anche inginocchiata, se solo non fossero avesse passato minuti interi sullo zerbino dell’uomo che amava.
Davanti a una porta chiusa.
Sospirò, le labbra cominciarono a tremare: lei era bella, pronta, preparata per lui.
E quello non si degnava neppure di guardarla, per un attimo.
Forse non c’era, forse non voleva aprire, ma si era appena resa conto di doversi voltare, per l’ennesima volta quel giorno, e di andare a raccogliere un altro pallone dalla sua rete.
E il timer segnava il novantesimo.
Le lacrime sul volto avevano un sapore così strano. Nere di trucco, del tutto contrastanti col sorriso divertito che vestiva in quel momento.
Ritornò sui suoi passi, prima i talloni e poi le punte dei piedi, e si lasciò chiudere lentamente la porta alle spalle.
Aveva perso Ruby. Aveva perso la partita.
Aveva perso la dignità e la fierezza di essere se stessa, dipingendo il proprio volto a immagine e somiglianza di qualcosa che non sarebbe mai voluto diventare.
Tornò in bagno e sospirò, gettando acqua in faccia e sporcando quella tela che era il suo viso.
Non sciacquò il lavandino, non alzò i panni da terra, quelli che aveva smontato da dosso.
Legò soltanto i capelli con un elastico e rimise i suoi vestiti, quindi guardò lo scrittoio.
C’erano carta e penna.

So di aver perso.
Di aver perso te, di aver perso questa guerra subdola in cui sono stata condotta.
Forse da te, o da quell’altra. Ma ora no, non m’interessa.
Sono arrabbiata con me stessa.
Perché ti ho permesso di entrare nella mia vita, come giusto che fosse, e di farti andare via.
E poi ce l’ho con te, perché hai permesso a me di diventare, anche se per poco, qualcos’altro.
Forse è vero che non sono la persona che ti meriti.
Forse non indosserò mai una taglia quaranta, o quei bikini che tanto ti piacciono, e che a Yvonne starebbe sicuramente benissimo.
Però una cosa te la voglio dire, Normanson.
Sei uno stronzo.
Sei felice adesso? Mi hai preso qualcosa e non so più che fare, e ce l’ho con te.
E non ti faccio neppure la morale, sul “volevamo, potendo”, sul fatto che forse tante coppie hanno vissuto ciò che stiamo vivendo noi adesso, e su quante donne, donne stupide, abbiano inseguito i propri uomini da tutt’altra parte, dove non c’è vita, la loro.
Non voglio farti notare COSE, non voglio puntare il dito contro di lei. Voglio che tu sappia che ora ho capito che sei un eccesso.
Un lusso che non mi posso più permettere.
Probabilmente è meglio adesso, che tra vent’anni, quando non mi sentirò più la tua metà, nella mia metà del letto.
Forse un giorno capirai ciò che provo. Forse un giorno capirai ciò che ho fatto.
Ci penserai e ti ripeterai che sì, forse era meglio così.
Ma ti resterà un dubbio, un frastuono nella testa. Sarebbe stata la stessa, la tua vita, con me accanto?
Forse hai fatto prima di me a capire, che è finita la stagione del TI AMO, e dei tremori di voce quando ci sentivamo, dopo una giornata lontani.
È finita la stagione del sesso per telefono, di quell’amplesso lontano e veloce. Di te, che eri la mia religione. Spero fosse altrettanto per te.
Un giorno lo capirai.
Ma ora no, lo so bene. Ora avrai da farti i cazzi che volevi, le commissioni che dovevi.
Io sono chiusa in una scatola, e il sole qui non sorge, e la mia mente e costretta in una morsa, dove mi dai ogni volta il colpo di grazia.
Amore… perché nonostante tutto sei questo per me: un sole nascente. Ora sei luce artificiale.
Ma non stare a preoccuparti per me, sono una persona troppo piccola per non vivermi il resto delle verità.
E imparare a sopportarle… tra caffè, brioche calde… docce, scarpe.
Da questo nero ricaverò dei colori.
Forse un giorno ti ricrederai, e capirai che io esisto, a prescindere da te, e ‘sti cazzi, AMORE, quel giorno sarò nel letto, di qualcuno che si sa ancora commuovere”.

Le lacrime bagnavano quel foglio maledetto. Tracce di mascara bucavano colpivano il bianco e lo facevano soffrire, riempiendolo, sporcandolo, celando alcune lettere.
Non tutte, qualcosa era rimasto comprensibile.
Sospirò e si guardò per un’ultima, ennesima volta allo specchio; doveva andare via.

“Puoi farlo, oppure no. Non credo sia una cosa che devo dirti io, ma combattere una guerra ormai persa… Tu non puoi farcela”.

Yvonne aveva ragione.
Aprì la porta, la chiuse con delicatezza e s’incamminò verso l’ascensore.
Ma prima di andare via si fermò di nuovo davanti alla porta di Ruby.
Poggiò delicatamente la mano sulla superfice che aveva sorretto il suo sonno stentato, quella notte, quindi sorrise debolmente.
Si abbassò e spinse il biglietto sotto la porta del ragazzo.
Quindi lasciò Austropoli per sempre.
Ormai aveva perso.



Angolo Autore.
Salve e grazie a tutti i lettori e recensori di questa storia.
Mi sembrava giusto menzionare i titoli delle canzoni che hanno ispirato parte di questo capitolo;
La prima è Closedloop di Elliot Moss, mentre la seconda è Traccia 2, una slam-poetry di Ghemon. Quando era ancora Ghemon.

Il prossimo capitolo dovrebbe essere con ogni probabilità il finale, non so quando uscirà né so se sarà compreso di epilogo.
Dopodiché il mio impegno ritornerà (finalmente) su TSR.
Grazie ancora.

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