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Herr - Ditching Cards - 5 - A Dream of Death

 

DITCHING CARDS

Questo capitolo è diviso in 3 fasce temporali, anche se due si uniscono alla fine. Ad ogni modo, ogni fascia è aperta da un indicatore temporale: esplicita la città, se parte del presente o del flashback e anche la data.
CAPITOLO 5
A Dream of Death
Stretching out my arms
I let it comfort me
Our bodies moving in the dark
It takes the pain from me
And then I am in love
With everyone I see
I keep on moving in the spaces where you used to be
(Florence + The Machine; Pure Feeling)

presente – Anville Town – 16/02/13
Un nuovo giorno era sorto ad Anville Town, ed il basso sole dell’alba faceva sembrare anche le più piccole e tozze case del paese come lunghi e sottili grattacieli, le cui ombre si allungavano sino a toccare i confini della città, verso l’area boschiva ed incontaminata. Il cielo era terso e l’aria sapeva d’umido, dopo una furiosa tempesta, che aveva lasciato traccia del suo passaggio anche sulla strada.
Al centro della cittadina, qualche isolato più in là dell’abitazione di Erika, anche l’ospedale era illuminato dai caldi raggi del sole che filtravano nella stanza di Ethan con tanta grazia quanto silenzio da rendere l’ambiente, un cubo asettico ammobiliata di bianco, uscito da un libro fatato. La luce, quei squarci che, attraversando le tende, trovavano passaggio nei punti più consumati, incontravano nell’etere i pulviscoli di polvere sospesi nell’aria e davano vita ad un suggestivo effetto Tyndall.
Il corpo di Ethan, ancora assopito, giaceva su di un lettino, coperto da un lenzuolo bianco, ed era collegato a diversi macchinari i cui rumori erano l’unico suono che rimombava fra le pareti.

Un rumore legnoso spezzò la calma eterea della stanza. Due colpi, secchi, che per l’intensità e la distanza davano l’impressione di una persona timida e impaurita dei suoi passi.
La porta si aprì, poco dopo, rivelando un viso femminile sconosciuto a Ethan.
« È permesso? » sussurrò, spostando il suo esile corpo sulla soglia.
Si guardò attorno, senza che ottenesse risposta, ed uscì. Col piede diede un leggero calcio alla porta e la accompagnò fino a spalancarla, gettando una raggiera di luce artificiale sul pavimento della stanza. Ritornò dentro con un carrello, sul quale culminavano scatole confezionate di cibo e buste plastificate.
« Buongiorno, signor Shepard ».
Ethan strizzò gli occhi, cercando un movimento che gli era impedito dalla quantità di tubi e fili che lo collegavano a macchine esterne. Schiuse le palpebre, disorientato, e ad aprì la bocca, ma come provò a parlare sentì una sensazione di bruciore lungo la sua gola.
« Va tutto bene, stia tranquillo. I suoi valori sono regolari ».
« Da— » tossì, facendo per coprirsi la bocca con la mano « da quanto sono qua? ». La sua voce era roca e stirata.
«  L’abbiamo tenuta in ospedale per qualche giorno per accertarci che stesse bene. Dovrebbe esser in grado di tornare a casa da questo pomeriggio ».
Ethan si guardò attorno.
« Avete— avete un telefono? ».
L’infermiera si mostrò sorpresa. « Come, scusi? ».
« Ho bisogno—  ho bisogno di un telefono ».
« Oh.. ». Lanciò un’occhiata dall’altra parte della stanza, in parte all’entrata del bagno, dove un telefono fisso baluginava sopra un comò color panna. « Là c’è un fisso per ogni evenienza ».

Uscita l’infermiera, Ethan si alzò dal lettino e trascinò sé stesso, con fatica, verso l’apparecchio. La sua veste azzurro turchese lo avvolgeva come un baco da seta e lasciava uno strascico sino al materasso.
Pigiò dei pulsanti sulla tastiera, nel tentativo di ricordarsi un numero, e attese sulla linea.
« Il numero da lei chiamato è inesistente ».
Abbassò la cornetta e la rialzò, invertendo l’ordine delle cifre. Attese, dunque.
« Il numero da lei chiamato è inesistente ».
Sbattè la cornetta sul comò mentre, dalle sue labbra, si trattenne dall’imprecare. Si passò una mano fra i capelli, come se da quel gesto dipendesse la sicurezza nazionale, e inserì nuovamente un numero. Attese.
« Pronto? ».
Gli occhi di Ethan si illuminarono.
« Looker! Sono io, Ethan ».

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flashback [un giorno prima] – Castelia City – 15/02/13
Erika si risvegliò nella camera d’albergo a Castelia come riportata in vita da un sogno. La sua testa pesava e le sue mani faticavano a sentire delle sensazioni come avanzava nell’oscurità. Le persiane, serrate, non lasciavano passare che pochi sottili spiragli di luce, non abbastanza da permetterle di vedere ciò che le stava di fronte.
Rinunciò a muoversi in avanscoperta e si gettò sul materasso, stanca per quanto appena sveglia, a fissare il vuoto sopra di sé. Aveva vaghi ricordi della giornata precedente, e di quei pochi che aveva non cercava memoria dentro di sé: tutto ciò a cui era interessata era scoprire chi fosse Hilda Baskerville, e se il sogno del giornalismo avesse qualche riscontro nella realtà.
Affondò il viso nel cuscino e chiuse nuovamente gli occhi, posticipando la sveglia a qualche ora.

Erano le 11:00 quando Erika mise piede fuori dall’albergo, nella mano stretto un foglio con una lista di tutte le testate giornalistiche più importanti di Castelia che si era fatta dare dai padroni.
Guardò la strada davanti a sé, un sorriso radiante che illuminava il suo viso, e si gettò a capofitto nella frenetica vita cittadina.

« The Castelia Herald… » lesse, mentre davanti a sé si ergeva una palazzina di mattoni sulla quale era stata infissa una scintillante targhetta di metallo con il nome della testata. Non notò molto traffico per l’entrata e l’intero edificio, in generale, non le diede l’impressione di un luogo che lei avrebbe potuto frequentare.
Si guardò attorno e, quando si accorse che l’esterno non coincideva con il suo sogno, tirò un sospiro di sollievo: depennò quel nome dalla lista ed era pronta a proseguire.



« L’Eco di Castelia… ».



« Il Corriere di Castelia… ».



« Castelia 24/7… ».



« Castle… ».

« Castle? ».
C, A, S, T, L, E: erano queste le lettere che scintillavano davanti a lei, poste a metà di un alto grattacielo vetrato che svettava verso l’alto, più di quanto riuscisse a vedere, a segnalare la presenza della redazione del Castle, quinto giornale della lista, penna nella mano sinistra pronta a depennare per l’ennesima volta l’ennesimo nome.
Quando gli occhi di Erika vi si poggiarono, tuttavia, qualcosa in lei cambiò. Rimase ferma, dall’altra parte della strada, fissando come a cercare qualcosa che non c’era in quel misterioso palazzo. All’entrata, tre grandi porte lasciavano che altrettante code di persone fluissero attraverso l’edificio, come tre paffuti lombrichi che forzavano la propria entrata nella cruna di un ago: la folla si stringeva verso l’entrata per poi allargarsi e scomporsi mano a mano che si allontanava da essa, come un imbuto.
Attraversò la strada e si gettò nella massa, aspettando che per inerzia anche lei venisse gettata dentro; quando entrò, si trovò se possibile ancora più disorientata. Erano dieci gli atri in cui si snodava la grande hall, ognuno dei quali aveva 4 ascensori che scomparivano dentro una parete color marmo.
La monumentalità di quel luogo le tolse il fiato.

« È questa la redazione del Castle? ».
La ragazza dall’altra parte del bancne alzò gli occhi ad Erika, poggiando la limetta che stringeva in mano con forza per esprimere il suo disappunto.
« Che? ».
« La redazione del Castle ».
Suzie, questo il nome che scintillava sulla targhetta pinzata sulla sua camicietta color carta da zucchero, alzò l’indice sinistro verso il soffitto. « Sembra di sì ».
Erika sforzò un sorriso. « Ok, gr—».
« Non può entrare ».
« Cosa? ».
« Le sembra che ho scritto Biglietteria in fronte? Non è un parco giochi ».
« Oh… Dovrei solo—».
« Facciamo così » la ragazza allungò il braccio e staccò un quadrato di carta dal blocco di post it, sul quale scarabocchio delle cifre. « Questo è il nostro sito internet, troverà là tutto quello di cui ha bisogno ».
« Ma—».
« O vada sulla pagina Wikipedia. Grazie mille ».

Erika indietreggiò, sentendo una presenza dietro di lei. Un uomo vestito di grigio, stringente una ventiquattrore fra le mani, la sorpassò, attraversando i tornelli che delimitavano l’entrata agli ascensori. Rimase ferma, immobile, mentre osservava le persone passare, sperando che cadesse un aiuto dal cielo.

« Ha intenzione di rimanere là tutto il giorno? ».
« Io—».
« Se in un minuto non è fuori, chiamo la sicurezza ».
« Volevo sol—».
« Sessanta secondi, cinquantanove secondi » come scandiva accuratamente quei suoni, sul suo viso lampeggiava un cupo sorriso « cinquantotto secondi, cinquantasette, cinquant—».
« Cosa sta succedendo qui? ».
Una terza voce si era unita al countdown.
« C’è qualche problema, Suzie? ».
« No, signor Wiseman, stavo giusto spieg—».
« Non serve, Suzie, me ne occupo io ». L’uomo non diede il tempo alla donna di ribattere che spostò lo sguardo su Erika, fino al quale momento era rimasta muta di fronte alla situazione « Francis Wiseman, lei è? ».
« Erika… Joy ».
Quando incrociarono lo sguardo, Francis sbiancò.

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flashback – Castelia City – 26/01/13
Ethan lanciò un’occhiata allo specchietto retrovisore, che apriva la visuale su di una deserta strada illuminata dal crepuscolo. La prospettiva si restringeva, dando origine ad un soggestivo quadro il cui soggetto, in fondo al tunnel virtuale, era il mare, incorniciato dagli alti palazzi di Castelia City.
Fece retromarcia esattamente all’interno di un settore quadrato grigio, sopra al quale scintillava l’insegna del carico e scarico, cercando il nome della via in qualche angolo della facciata che si ergeva in parte a lui. Quando la confrontò con il biglietto che aveva scarabocchiato sul cruscotto, fu sollevato: coincidevano.
L’edificio si sviluppava su diversi piano verso l’alto ed era rivolto, con la sua facciata color turchese, verso una banca dall’altra parte della strada. Alla sua destra, come si scendeva, si sarebbe trovato il mare; alla sinistra, l’uscita di Castelia. A Ethan non diede la migliore delle impressioni, ma si decise ad entrare.
Bzz.
Il suono del campanello sopraffece, per un momento, quello del traffico, che per la lontananza non sembrava che un miraggio.
« Chi è? » gracchiò una voce maschile.
« Shep— Ethan Shepard ».

Attese.

« È in ritardo ».
E la porta si aprì.

Gli interni del palazzo rispecchiavano lo spirito spartano dell’apparato esterno, apparendo come poco più che un corridoio spoglio e brullo che, attraverso una tromba di scale pressoché infinita, rendeva ogni appartamento accessibile dal piano terra. Dava più l’impressione di un bunker, a dire il vero; le pareti erano colorate di giallo sbiadito fino a metà, dopo la quale proseguiva verso il soffitto un bianco sporco, che ricopriva le pareti. Un mosaico di frammenti di ciò che una volta erano state delle mattonelle ricopriva, malamente, la terra dove Ethan poggiava i piedi. Dall’alto pendevano delle lampadine, senza che nessun involucro di vetro le proteggesse, tramite dei cavi ricoperti di nastro adesivo. Con sua grande sorpresa, non era stato colpito da bombardamenti quell’edificio.
Quando arrivò alla porta desginata, non si fece prendere da ulteriore esitazione e bussò.
Ripeté il movimento una decina di volte, pur udendo i passi dell’uomo avvicinarsi.
Udì un « Arrivo » mugunato sottovoce dall’altra parte della porta, prima che il cigolio della stessa anticipò la sua apertura. Dietro, un uomo sulla quarantina in giacca da camera verde smeraldo.
« Ethan—».
« Looker ».
« Looker…? ».
« Looker e basta » concluse, come chiuse la porta dietro di sé. « Mi dica, signor Shepard, di cos’è che mi voleva parlare? ».
Ethan guardò attorno sé, alla mobilia del corridoio, che a giudicare dall’edificio si sarebbe aspettato essere decisamente peggio: un tappeto bordeaux ricopriva l’intera lunghezza del camminamento, ai lati erano appesi dei quadri con scene di città mai viste prima ed un comò in legno laccato sanciva la fine del corriodio stesso, dove l’ambiente diveniva una cucina, altrettanto ben decorata.
« Vuoi qualcosa da bere? ».
« N— no, grazie ».
Looker andò ai fornelli e tirò fuori il bollitore da un’antina, che posò poi sul fuoco.
« Dimmi, cos’è che ti porta qua? ».
« Sei un’investigatore privato, dimmelo tu ».
« Sono un investigatore privato, non dio » sorrise Looker, senza che Ethan lo vedesse. « Posto che esistea» mugugnò infine, mentre prendeva la bustina del caffè.
« È una richiesta abbastanza… strana ».
« È il mio lavoro ».
« Questo è diverso, glielo assicuro ».
La sua inquietidune sprizzava da tutti i pori, e prima da tutto dal foglio di carta che si trovava a stropicciare ed in ultimo e strappare in frammenti sul tavolo. Evitava l’incrocio di sguardi con l’uomo, nella speranza che egli facesse lo stesso.
« Ecco— c’è questa persona che vorrei trovare, solo che è come se non esistesse… ».
« È morta? ».
Looker sollevò la caraffa bollente dal fornelletto e riversò l’acqua in un mug, recitante la scritta “I LOVE Castelia City”.
« No no— o almeno spero. Ha cambiato identità ».
Versò la polvere di caffè dentro, mescolandola con un cucchiaino.
« Uh. Interessante ».
« Può aiutarmi? ».
« Sono qua per questo ».
Un sorriso che squarciava il suo viso illuminò Ethan. « Davvero? ».
Looker si voltò finalmente a guardarlo, stringendo la calda tazza di caffè fumante in mano.  « Certo, dimmi il suo nome ».
« Credo si chiami Erika Joy ».
« Crede o ne è sicuro? ».
Ethan fissò le mani di Looker. « Sono sicuro ».
« Ottimo, allora! Ti chiamerò appena saprò qualcosa di più ».
« Come? Non— tutto qua? ».
« Cosa ti aspettavi? James Bond? Non ho i superpoteri ».
« Chiaro, scus—».
« Non scusarti, non serve. Ritorna in albergo, o da dovunque tu venga, rimarremo in contatto ».
Con un gesto della mano sinistra spinse l’aria davanti a sé via, facendo capire a Ethan che il suo tempo lì fosse scaduto. Si sedette, dunque, mentre sentiva i passi del ragazzo farsi sempre più lontani e sottili, fino a culminare nel cigolio della porta.
Venne cullato dal rimbombo delle scale mentre sorseggiava il caffè.

Mezz’ora dopo, il caffè era ormai finito, e Looker stava sfogliando maniacalmente un taccuino nero alla ricerca di qualcosa. In parte a lui aveva messo il telefono fisso, la cornetta sul tavolo rivolta verso l’alto, mentre le sue dita andavano da pagina a pagina nella speranza di ritrovare un numero scomparso dalla sua memoria.
Si fermò sulla R.
« Tre… quattro… nove… ». Lentamente, digitava le cifre sul telefono, sino a che non rimase in attesa di una risposta.
All’udire una voce, dall’altra parte della linea, Looker ebbe un guizzo.
« Pronto, sono Looker… sì, lo so che— ascoltami, ho visto il ragazzo ».
Fissò il vuoto davanti a sé per qualche secondo.
« Mark, Ethan, come si chiama. Sì lui… mi ha chiesto di Hilda… Erika Joy ». Tossì. « Cosa dovrei fare? Dirl—».
Continuava a guardare senza scopo le venature del legno, senza vederle veramente. Guardava oltre, perso nella chiamata.
« Gli ho detto che l’avrei richiamato quando ne avrei saput— ok, ok… aspetta che me lo segno ».
Aprì il taccuino sulla pagina di A e afferò una penna che vagava solitaria in un angolo della cucina, la cornetta incastrata tra l’orecchio e la spalla, alzata.
« Aspetta, aspetta… A… n… vil… n… Anville Town? ».

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« Mi dica, signora Joy, cosa l’ha spinta a venire qua a Castelia City? ».
Erika osservò la sua immagine riflessa nella tazzina da caffè fumante, appena uscita dalla macchina automatica a cialde. Aveva un aspetto invitante, sicuramente più buono di quanto lei sarebbe riuscita a fare, ragionò.
« Io… per curiosità, più che altro ».
« Cosa la incuriosisce, signorina Joy, di questa città? ».
« Be’, sa, non è tanto per la città— o meglio, la città è secondaria. Starei cercando una persona ».
Afferò il bracciò della tazza, rimanendo leggermente scottata dal calore della ceramica. Come portava la bevanda al viso, tuttavia, provò una piacevole sensazione di tepore dovuta al vapore ed all’invinitante odore del caffè.
« Oh, non le ho chiesto se vuole zucch—».
« È ottimo così » lo interruppe lei, prendendo il primo sorso.
Francis sorrise. « Dunque… Posso aiutarla nella sua ricerca? ».
« Credo— credo di sì. Penso lavorasse qua ».
« Mi dica il suo nome, allora! Sarei felice di aiutarla ».
« Hilda… Basketville » continuò Erika. « Anzi, Baskerville. Hilda Baskerville, con la r ».
« Mmh…. ».
L’uomo aprì un cassetto in parte a lui e ne estrasse uno spesso faldone, straripante di fogli da ogni lato, sul quale capeggiava la scritta “Staff” a caratteri cubitali. Soffiò via la polvere dal tomo e prese a sfogliarlo, fermandosi in prossimità della B.
« Baylea… Balton… Basly… Batshit… » lesse, sotto gli occhi rapiti di Erika « no, mi dispiace, ma non c’è nessuna Hilda Baskerville che ha mai lavorato per noi ».
L’espressione sulla faccia di Erika cambiò radicalmente: se prima un lieve sorriso, anche dato dall’aver potuto gustare un caffè così buono, era comparso sul suo viso, ora pareva aver assistito all’esplosione di una bomba ad un concerto. La sua delusione era grande, così come lo erano le aspettative che si era fatta a seguito della sua esperienza onirica.
« Oh… fa niente, allora ».
« È dispiaciuta? È una sua parente? ».
« No, si figuri, va tutto bene. La ringrazio del tempo, è stato gent—».
« Insisto » la interruppe, afferrano un pezzo di carta ed una penna, recitante il nome Francis J Wiseman « scriva pure il suo nome ed il suo recapito qui, se dovessi avere qualche notizia non esiterò a chiamarla ».
« Oh… grazie mille, è veramente gentile ».
« Di niente » sorrise Francis.
Erika dunque si alzò e se ne andò, accompagnando con attenzione la porta.

Erano passati pochi minuti che Francis si era fiondato al telefono, aspettando con impazienza una risposta da parte dell’interlocutore. Fra le sue grinfie stringeva la penna e la mordicchiava ritmicamente, accompagna dal tamburellio delle sue unghie sul legno della scrivania.
« Sì, Looker sono io… Hilda è arrivata, come mi avevi detto— sì, ora ti do il suo numero ».

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flashback – Castelia City – 07/02/13
« Pronto, Ethan? Posso chiamarti Ethan, vero? ».
« Sì, sì— pensavo non ti facessi più vivo! ».
« Non sono neanche passate due settimane! ».
« Vabbè, hai novità? ».
« Ti basta il suo indirizzo? ».
« Cosa? Sul serio? ».
« Mai stato più serio in vita mia ».
« Possiamo vederci? ».
« Certo, vieni da me non appena puoi ».

Ethan spinse la porta in avanti, trovandola con sua sorpresa aperta. Entrò da solo, richiudndo la porta dietro di sé mentre in sottofondo sentiva il borbottio della tv ed il gorgogliare dell’acqua, suoni che provenivano da ciò che ricordava essere la cucina.
« Vieni pure, Ethan! Sono in cucina ».
« Arrivo ».
Trovò Looker intento a bollire un altra caraffa d’acqua.
« Bevi sempre caffè quando vengo io? ».
« È la seconda volta che arrivi! Ed è tè verde, per la cronaca ».
« Oh, scusa. Delle novità di cui parlavi? ».
« È tutto sul tavolo ».
Ethan lanciò un’occhiata al tavolo, dove vide solo che un post-it scarabocchiato.
« È quel foglio? ».
Looker annuì.
« Ok » lo apostrofò « sei tu il capo ».
Prese il foglietto in mano come si sedette e cominciò a leggere il foglio, anche se incontrò molta fatica nel tentare di decifrare la scrittura dell’uomo. Dopo molti tentativi ed intuizioni sbagliate, giunse ad una conclusione.
« 15 Regent Street, Amuilla Town ».
« Anville ».
« Oh, Anville. 15 Regent Street, Anville Town, quindi ».
« Esatto »
Ethan lo guardò confuso. « Dov’è sto posto? È qua vicino? ».
« Quasi » sorrise Looker « prendi la cartina dietro di te ».
Allungò il braccio senza girarsi ed afferò un rotolo di carta avvolto nella plastica, che poggiò sul tavolo. Lo srotoloraono assieme, usando dei piatti per mantenerne le estremità.
« Ecco » Looker indicò al centro della mappa, dove un lembo di terra circolare si tuffava nel mare « qua siamo noi, a Castelia City. Anville Town, invece, è qua ». Fece scivolare il suo dito verso destra, per poi salire nell’angolo a nordovest, sotto lo sguardo sbigotitto di Ethan.
« È lontanissima! ».
« Una giornata di viaggio al massimo » la dileguò lui « posso portartici, se vuoi. Ci son già stato in precedenza ».
« Sarebbe ottimo, grazie ».
« Allora partiamo! ».
Sbattè la tazzina di tè sul banco cucina e scomparve dentro il corridoio, chiamano a gran voce il castano. « Ethan, vieni! ».
« Ma— partiamo di già? ».
« E quando, se no? » continò ad urlare. « Dai, in caso ci fermiamo in un motel per la strada, offro io ».
Ethan si decise ad alzarsi e seguì la sua voce, che lo condusse alla porta dove video uno strano spettacolo: Looker si era cambiato in tempo lampo, indossando una camicia azzura ed una giacca blu sopra, a coprire il quale tutto v’era un trench beige. Quello che lo colpì fu la pistola che stringeva nella mano destra.
« È una pistola quella? » chiese, senza che si aspettasse una risposta.

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Erika stava fissando il vuoto soffitto che stava sopra di lei, immersa nell’oscurità, mentre alla radio passavano inascoltate le canzoni. Il volume era tanto alto da soddisfare il suo bisogno di drammaticità da aggiungere alla sua meditazione e abbastanza basso da esser coperto dai suoi pensieri, per i quali non erano altro che un banale sottofondo. Fatiava a tenere gli occhi aperti ed anzi, si trovava sull’orlo della dormiveglia, quando udì il suo telefono squillare.
Era un numero sconosciuto, e la colse di sorpresa il fatto, dato che erano poche le persone a conoscenza del suo numero telefonico dopo averlo cambiato. Nonostante ciò, si alzò per raccoglierlo ed accolse la chiamata.
« Pronto? ».
« Buonasera, è lei la signorina Erika Joy? ».
« Come— come fa a sapere il mio nome? ».
« Non ha importanza. Mi chiamo Looker e la sto chiamando perché ho delle informazioni che possono tornarle utili nella sua ricerca. Se ha vogia di scoprire qualcosa di più, venga pure nel mio ufficio uno di questi giorni. Domani, anche. ».
« Lei… sa di Hilds Baskerville? ».
« Le ho detto, ho delle informazioni utili. Vuole il mio indirizzo? ».
Erika non esitò. « Sì ».

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presente – Castelia City – 16/02/13
L’indomani era giunto.
Quando Erika giunse all’edificio dell’indirizzo, fece fatica a credere di aver trovato la porta giusta incastonata in una facciata turchese, che avrebbe visto meglio in un panorama orientale e marittimo che al centro del cuore della vita economica di Unova. Scrollò le spalle e si fece strada all’interno, fremente d’impazienza per le cose che, sperabilmente, avrebbe scoperto.

La porta era già aperta quando i suoi occhi, ancora a metà della tromba delle scale, intravidero l’entrata all’appartamento. Non si sarebbe mai aspettata, quello certamente, di incontrare un bonario uomo sulla quarantina in una giacca da camera mentre sorseggiava una tazza di caffè.
« Buongiorno! Erika Joy, suppongo? ».
« S— sì, sono io ».
« Accomodati pure ».
La fece passare e chiuse la porta dietro di lei, accompagnandola poi verso il salotto.
« Immagino che tu abbia molte domande per me, non è così? ».
Erika annuì.
« Bene » sorrise Looker, come si sistemò sulla poltrona – affondò, per meglio dire, nel suo morbido tessuto « Prima di tutto, il mio nome è Looker. Sono un ex agente della polizia internazionale e abito a Castelia City da circa due anni, ovvero da quando ho cominciato la mia indagine a Unova. È stato durante questo periodo che ho incontrato Hilda Baskerville ».
« Hai conosciuto Hilda Baskerville? ».
« U-hu » mugugnò « neanche tu le sei proprio sconosciuta, non credi? ». Detto ciò indicò un raccoglitore di foto che giaceva sul tavolino di legno che li separava « Aprilo ».
Erika allungò le braccia davanti a sé e raccolse l’album, che conseguentemente sfogliò bramosa. Se inizialmente le foto raffiguravano solo soggetti di natura morta o paesaggi, col tempo la scena cambiò e cominciò a vedervi delle persone. In una foto, in particolare, erano presenti due persone sullo sfondo del porto di Castelia. La persona a destra era irriconoscibile, ma quella alla sinistra… era lei.
« Cos’è questa foto? ».
Il suo cuore aveva preso a battere a mille, poteva sentirlo spingere e premere per uscire fuori dalla cassa toracica, laceare la pelle e scappare. Una sensazione di affaticamento aveva pervaso le sue ossa, come una scarica, che si era trasformata in un ben più materiale sudore sulle sue braccia e la sua fronte. Improvvisamente, provò una forte vampata di umido calore al petto.
« Hilda Baskerville ».
« Sono… sono io ». Con le mani tremanti, lasciò cadere l’album per terra.
« Hilda Baskerville » la corresse Looker « quella è Hilda Baskerville. Tu sei Erika Joy, non credi? ».
« Cosa significa questo? Cosa cazzo vuol dire? ».
« Eri—».
« SONO IO! » scattò, in piedi. I suoi occhi erano iniettati di rabbia. « SONO IO! In tutte quelle foto, sono io! Non mentirmi, ti prego ».
« Siediti » fece cenno « e possiamo parlarne. Vedi, Erika, le cose sono più complicate di quanto credi. Vorrei tanto poterti dire tutta la verità su di te, ma la verità è che non spetta a me questo ».
« Ed a chi spetta, allora? ».
« Ad Hilda ».
Si alzò, senza che la castana potesse prevederlo, e attraverso la stanza andando a ripescare, dalla libreria, uno spesso tomo di storia di Unova. Fra i suoi colleghi dello scaffale era il più pulito e meglio tenuto, tanto che non dovettte spogliarlo della polvere quando lo posò sul tavolo. Lo aprì, dunque, rivelandone un interno cavo, nelle quali pagine era stato intagliato un rettangolo. Dentro, due cd.
« Questi CD furono registrati da Hilda stessa in differenti momenti della sua vita e raccontano le vicende che l’hanno portata a dove è ora, oggi ». Lanciò un’occhiata, molto più loquace di quel che avrebbe voluto intendere, ad Erika. « Se li ascolterai, capirai ».
« Là dentro… là dentro c’è tutto? ».
« Tutte le risposte alle tue domande ».
Erika guardò quello spettacolo rapita delle parole. Più che incapace di parlare, non ne sentiva il bisogno: in quel momento, le sembrava di aver raggiunto la soddisfazione di una vita, di aver toccato la vetta della montagna più alta della regione e di ammirare con una calma ancora corrotta dall’eccitazione il paesaggio. Era così, e non seppe rispondere altro che: « Come hai avuto il mio numero? ».
« Ecco… è da un po’ di tempo che aspetto che tu venga qua, così ho fatto avviso alle persone che ho ipotizzato tu potessi contattare di notificarmi non appena… sì. non appena tu venissi da loro ».
« È stato quel Wineman a darti il mio numero? ».
« Wiseman » la corressse Looker.
« Wiseman, ok. È stato lui? ».
Looker annuì.
« All—».
Le parole di Erika furono interrotte dallo squillare del telefono.
« Cos’è? ».
« Il telefono » la apostrofò Looker, ancor prima che potesse finire la domanda. « Scusami, torno subito ».
Uscì dalla stanza e seguì il suono dell’apparecchio fino alla cucina, dove chiuse la porta per evitare che le sue parole raggiungessero Erika. Erano poche le persone a conoscenza del suo numero, nessuna delle quali portava discorsi tali che lei potesse ascoltarli.
« Pronto? » gracchiò una voce, dall’altra parte della cornetta.
« Chi è? ».
« Looker! Sono io, Ethan ».
« Hai il coraggio di chiamarmi? Dopo quello che è successo? ».
« Ascolta, Look—».
« No, ascolta tu. Non ho intenzione di fidarmi di te, e questa è l’ultima volta che ti darò ascolto. Alla prossima, sei da sol—».
« Ok, ok, va bene. Senti, ho paura che Hilda sia scappata ».
« Cosa intendi per scappata? ».
« Qualche giorno fa sono tornato con lei ad Anville Town e quando ha trovato il suo ragazzo è impazzita. Devi aiutarmi a trovarla ».
« Come posso farlo? Non so dove sia ».
« Riesci almeno a dirmi se hai sue notizie, anche la più piccola cosa? ».
« Certo, certo » sorrise Looker.
« Grazie, sapevo di poter—».
« Alt, cos’avevamo detto? Ciao, Ethan ».
Gettò la cornetta sull’incavo e ritornò da Erika, che trovò sul ciglio della porta con Una storia di due re in mano.
« Ho pensato… ho pensato che avessimo finito. Non credo ci sia altro da dire, quindi… posso andare? ».
« C—».
« Con i CD, intendo. Andarmene con i CD ».
« Oh. Ok, va bene, non erano di mia proprietà comunque ».
« Molto bene, allora. Grazie, credo. Grazie di tutto ».

𐌳 𐌳 𐌳
flashback – Anville Town – 08/02/13
Looker e Ethan non erano ancora giunti ad Anville Town quando il ragazzo, con sua grande sorpresa, vide la macchina rallentare ed entrare in uno spazio accanto alla strada, proprio nel punto in cui l’area boschiva della città finiva ed incontrava i primi segni di civiltà. La strada, dissesstata e rocciosa, si faceva più gentile e diveniva asfaltata, circondata ai lati da basse villette abitate che si alternavano a negozi e ristoranti.
La stazione di gas dove Looker aveva deciso di fermarsi e scendere, giustificando il tutto con « Faccio un po’ di rifornimento e prendo delle patatine, vuoi qualcosa? » era deprimente a tal punto da far quasi addormentare Ethan, che dalla noia si mise a giocare con ogni cosa gli pervenisse in mano tra cruscotto, tasche laterali e sedili posteriori.
Ben presto anche quello lo annoiò, sino a che la vista delle chiavi non accese in lui un nuovo interesse. Staccò il mazzo dalla toppa e, uscito, andò sul retro ad aprire il bagagliao: era lì, la pistola che tanto lo incuriosiva, giacente in parte ad una scatola di ricariche. La prese in mano per pesarla e in breve si ritrovò a giocarci, senza che Looker fosse ancora tornato.
Fu in quel momento che un pensiero ben peggiore gli sforò la testa. Mise la pistola in tasca e ritornò davanti, dove pescò l’indirizzo di Erika Joy dal cruscotto. Lo rilesse: Regent Street 15. Si guardò attorno, nessuno alla vista, e prese a correre a perdifiato verso la città, lasciandosi Looker, la sua macchina e dei grossi problemi alle spalle.

Era circa mezz’ora che aveva perso a correre che si era ritrovato a Regent Street, nella disperata ricerca del civico 15. Incapace di capire in che modo fosse articolato l’apparato urbano cittadino, si sedette stremato su di una panchina, e fu allora che ricordò della pistola.
Oltre al problema della strada, se n’era posto anche un altro.
Recuperato il fiato imboccò una via laterale a quella dove si trovava e riuscì a individuare, dopo qualche minuto di ricerca, un edificio abbandonato il cui cancello era stato sfasciato.
Usando un albero come segno di riferimento scavò una buca e vi nascose la pistola, coprendo il tutto e ritornando sulla strada principale, dove vide in una signora che passava il miglior modo di trovare l’indirizzo di Erika.
« Buongiorno. Sa dove posso trovare il civico 15 di Ragant Street? ».


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