Capitolo II.
L’agente Lucas si passò una mano tra i capelli corvini, poi ritornò a fissare la Capopalestra di Laverre City. Era silenziosa, immersa in un coacervo di pensieri che sembrava impossibile da districare. Intrappolata in una muraglia di dolore che nemmeno un armamento di bombe sarebbe riuscito a rompere. Lucas sapeva che non c’era bisogno di chiederle come stesse per venire a conoscenza del suo vero umore: bastava guardarla. Quella giovane stava morendo dentro. La perdita di un Pokémon caro non è mai semplice da digerire.
Si sentì in dovere di trasmetterle un po’ di conforto, anche se non era il tipo da perdersi in certe smancerie. Le posò una mano sulla spalla, e quando lei lo guardò, provò a farle un sorriso incoraggiante.
Valerie ricambiò, ma fu come se non lo avesse fatto.
Stava pensando ad altro, ad un modo per risolvere quella situazione tremenda senza perdere il controllo.
Si stava trattenendo.
Stava implodendo dentro.
-Troveremo il tuo Pokémon, ragazza.
-Non è un semplice Pokémon. E’ la mia compagna da una vita, l’amica che non ho mai avuto. Non sa cosa abbiamo passato insieme. Non sa quanto faccia male questo silenzio...
Lucas aggrottò le folte sopracciglia nere, ma non tolse la mano dalla spalla della giovane. No, non sapeva niente, non poteva capirla.
Poteva solo immaginare. -Farò di tutto perché la tua compagna ritorni a casa sana e salva, non ti preoccupare. La mia squadra ha quasi finito di ispezionare la palestra. Appena termineranno, ci metteremo al lavoro. Le faremo sapere al più presto una possibile pista, questione di qualche giorno, non di più.
Valerie non disse niente, nascosta sotto la lunga capigliatura corvina. I suoi occhi stellati rimasero a fissare un punto in lontananza, persi in un dolore faticoso persino da spiegare.
Voleva solo la sua adorata.
E avrebbe fatto di tutto per riaverla, a costo di mettere a soqquadro il mondo intero.
Niente e nessuno l’avrebbe fermata. Un pezzo di cuore le era stato rubato, e se lo sarebbe andato a riprendere.
Valerie scelse di chiudere la palestra, almeno temporaneamente. Non che non avesse più Pokémon da lanciare contro lo sfidante, ovvio; Spretzee e Mawile erano perfettamente in forma e pronti a tenere testa persino al più arduo degli allenatori, se solo lei lo avesse voluto.
Ma dopo l’accaduto di ieri, non se l’era sentita di tenerla aperta un solo istante di più.
Il dolore dentro di lei si era aperto come una voragine, e sapeva che non se ne sarebbe andato fino a quando le cose non si sarebbero rimesse a posto. Come? Col suo ritorno.
Lo fece a malincuore, distrutta, sperando che gli sfidanti avrebbero compreso le sue ragioni e atteso pazientemente che la situazione si fosse risistemata.
Sapeva di star facendo loro un danno, con quella scelta improvvisa.
Ma tenerla aperta significava fare danno anche a lei, per cui, quando voltò le spalle alla palestra per dirigersi verso casa tua, lo fece a spalle alte, mento proteso. Non era passato istante senza che avesse dedicato un pensiero alla sua piccola. Lei era lì, fissa nella sua mente, e il suo ricordo era stata l’unica cosa in grado di spingerla fuori dal letto quella mattina.
A farla aggrappare ad una qualche speranza, seppur remota, e a farle credere che tutto sarebbe filato liscio come l’olio.
Si sentiva maledettamente in colpa per l’accaduto; se non avesse lasciato i Pokémon alla palestra, niente di tutto quello sarebbe capitato. E a quest’ora lei sarebbe stata al sicuro tra le sue braccia, a fissarla con i suoi grandi occhi color cenere e a leccarle dolce il mento per farla ridere.
Un pensiero carino, affettuoso, che in quel momento però le lasciò una profonda crepa nel cuore. Si sarebbe presa del tempo per pensare ad una soluzione, rilassarsi e riflettere su ciò che era accaduto senza permettere allo sconforto di prendere il sopravvento. E nel frattempo, avrebbe seguito le indagini insieme all’agente Lucas.
Alla ricerca di risposte che ora come ora sembravano non avere neanche una parvenza di senso.
-Non ci posso credere…
-Perché è chiusa?
-Ma dai, non è possibile! Mi sono fatto un maledetto culo per arrivare fino a qui, e adesso mi state dicendo che palestra è chiusa?
-Maledetti capopalestra, fanno sempre quel che gli tira. Fottetevi.
Calem si mise in punta di piedi sugli stivali alti, per sorpassare le grosse teste che gli impedivano, cocciute, di realizzare il motivo di tanta rabbia.
Su un foglio bianco attaccato alla porta d’ingresso stava scritto, a caratteri grandi:
“ci scusiamo per il disagio, ma la palestra di Laverre City rimarrà temporaneamente chiusa a causa di alcuni disguidi al suo interno. Verrà riaperta il più presto possibile, una volta che questi ultimi saranno sistemati. Capopalestra Valerie.”
Un messaggio che faceva imbestialire, senza dubbio.
Eppure non sentì di prendersela come gli altri, per un semplice, scontato e forse banale motivo. Le parole erano state tracciate di getto, da una mano tremante e insicura che a fatica era riuscita a tenere il pennarello tra le mani. Ne poteva cogliere l’angoscia dal tratto appena accennato, dalle circonferenze lasciate semiaperte per una fretta improvvisa verso qualcosa, o qualcuno.
Ogni singola lettera trasudava dolore.
Era chiaro ed evidente che doveva essere successo qualcosa di brutto, eppure quei tizi non riuscivano a capirlo. O forse non volevano crederci, tutto qui.
Se ne andarono bestemmiando, ma lui rimase ad analizzare il foglio ancora un po’, le mani nella tasca dei jeans e le spalle rilassate sotto il sole terso dell’autunno. Era incuriosito dall’essenza destabilizzante emanata dal cartello. Chissà che cosa era accaduto lì dentro… ripensò alle sirene della polizia qualche sera prima, quando aveva messo piede a Laverre City per la prima volta; presto i tg avrebbero raccontato il fatto, gli sarebbe bastato accendere la tv.
-Ciao.
Si voltò con uno scatto improvviso e incrociò gli occhi con quelli celesti di una giovane donna. I lunghi capelli rossi le circondavano il collo, e un forte rossetto dalle tonalità rosse le decorava le labbra fini, piegate appena in una smorfia di imbarazzo.
-Ciao.- le rispose, scendendo le gradinate della palestra e allontanandosi dal cartello. La scrutò meglio, posando gli occhi sull’abito celeste che ricordava vagamente un Tentacruel.
Doveva essere una ragazza della palestra, senza dubbio: solo loro vestivano in quel modo estroso persino nella quotidianità - aveva letto di loro in varie riviste, erano abbastanza famose -. -Sai cos’è successo qui?
-Informazioni riservate.
Sorrise dinanzi alla sua ingenuità di ragazza. -Nel giro di qualche ora smetteranno di esserlo, quando i media trasmetteranno l’accaduto a tutta Kalos.
La giovane si arrese all'evidenza di quelle parole; sospirò e gli dardeggiò un’occhiata che aveva tutto meno che del simpatico. Ma alla fine scelse di parlare, sapendo che il corvino aveva ragione. -Un Pokémon di Valerie è stato rapito ieri sera. Era il più caro, il più prezioso. Non che agli altri non voglia bene, ma questo… questo ha una storia speciale. Fa parte del suo passato, e ci è molto legata. Puoi immaginare come sia stato per lei vedersi sparire colei a cui più tiene… Valerie è... una farfalla molto sensibile.- prese fiato, portandosi una mano all’orecchino color rubino. -è stato traumatico. La polizia attualmente sta indagando. Speriamo che quel Pokémon venga ritrovato, e il rapitore punito come merita.
-Capisco…- Calem si guardò la punta degli stivali, in silenzio religioso. Non poteva capire il dolore della Capopalestra, ma se a lui avessero rapito Delphox… sarebbe impazzito, letteralmente. Si sarebbe messo sulle sue tracce da solo, come un isterico.
Era tutto ciò per cui viveva, l’amico che non aveva mai avuto e l’alleato che aveva sempre sognato. Tra loro c’era una sorta di amicizia fatta di silenzi, sguardi e sorrisi.
Erano perfetti l’uno per l’altro, e senza di lui non valeva neanche la pena uscire di casa. -E… come sta adesso, Valerie?- lo chiese, ma non che gli importasse realmente di saperlo.
O forse sì, ma si vergognava ad ammetterlo.
-E’ a casa. E’… è distrutta.
-Capisco. Quando la notizia si spargerà, gli sfidanti capiranno. E lasceranno in pace questo posto.
-Non molti reagiscono come te, ragazzo.
-Ogni tanto bisogna anche mettersi nei panni degli altri. Sono sicuro che quel Pokémon verrà ritrovato.
-Lo spero.
Fece per andarsene, quando la ragazza lo afferrò per un polso, bloccandolo. Sembrava contenta di aver tenuto quella conversazione. Sotto la frangetta rossa, le brillavano gli occhi di un’insolita commozione.
-A nome di tutte noi, grazie. Sei un bravo allenatore, Valerie sarebbe contenta della tua reazione. Non hai dato di testa come gli altri, e… ok, puoi andare. Scusa! Quando viene chiusa la palestra succede un putiferio! Nessuno si ferma mai a pensare… che mondo egoista, non trovi?
-Molto egoista.
Se ne andò a grandi passi, con quella conversazione in gola e quell’accaduto nel profondo del cuore.
Anche lui era egoista. Egoista, menefreghista e così superficiale da far schifo. Eppure perché non smetteva di indossare il dolore di Valerie? Di percepirlo come suo?
Dio, se fosse successa una cosa del genere a Delphox…
Lo liberò dalla Pokéball e lo strinse affettuosamente, angosciato all’idea di poterlo perdere per un tragico errore del destino.
Il Pokémon Volpe rimase interdetto dinanzi a quell’improvvisa dimostrazione d’amore - Calem non era un padrone molto espansivo -, ma quando vide le sue gote arrossire per l’imbarazzo si lasciò andare ad un mugolio divertito, e lo avvolse subito nella sua pelliccia calda.
Rimasero in quella posizione per minuti che parvero ore, ad ascoltare il vento sussurrare tra le foglie smorte degli alberi.
E quando si staccarono, il cuore di Calem era stranamente più contento.
Più giusto.
E forse anche meno egoista di prima.
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