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Lila May - Missing - V.

Capitolo V.


Lei
.

Gliel’aveva regalata il padre undici anni fa, per il suo tredicesimo compleanno, quando ancora abitava a Ecruteak City e il mondo era bello, ingenuo e odorava di foglie secche e dolci fatti al forno.
Valerie ricordava alla perfezione quel momento particolare della sua vita, come se fosse accaduto la settimana prima. Frequentava l’accademia delle Kimono Girls, era alta per la sua età, troppo, con un buffo caschetto corvino a carezzarle il collo magro, vittima di prese in giro, derisioni e ignoranza. Per le orecchie allungate, i suoi occhi immensi. Le sue movenze fiabesche, irreali.
Rammentava bene come sorrideva agli insulti, accogliendoli nel suo cuore con la stessa importanza di un complimento. Come credeva che l’essenza della bellezza stesse nell’essere diverso, e come ne andasse particolarmente fiera.
Ma la cosa che ricordava ancora meglio, era la gioia che aveva provato nel ricevere il suo primo Pokémon. Il padre gliel’aveva sventolata davanti come un trofeo, prima di posargliela tra le braccia spalancate e tagliarsi una fetta di torta da condividere con la moglie.
Dio, era bellissima, così soffice al tatto. Con quel suo manto fulvo e quei suoi due immensi occhi cinerini che vagavano impauriti per la stanza, alla ricerca di una via di fuga, alla ricerca di qualcosa, o qualcuno che la facesse sentire al sicuro, protetta.
Valerie aveva compreso il suo stato d’animo, e le era venuta in soccorso.
Come?
Usando il dono più grande che la natura potesse averle mai regalato. E no, non si trattava dei capelli meravigliosi, o del sorriso elegante.
Le aveva parlato, ecco tutto. Non come un umano parla ad un Pokémon, ma come un Pokémon parla ad un altro Pokémon. Da pari.

Da sorelle della stessa specie.

E lei aveva compreso immediatamente la sua stessa lingua. Aveva scelto di fidarsi, e quando si era accucciata contro il petto di Valerie, la ragazza aveva giurato di morire di gioia.
Le loro sensazioni erano diventate un tutt’uno, ogni cosa era parsa tornare al posto giusto da quel giorno in poi. Erano cresciute, e con loro i sogni, sempre più grandi perché potessero rimanere dentro un cassetto a marcire.
Si erano così trasferite a Kalos, a Laverre City, dove Valerie abbandonò la carriera di neomodella per dedicarsi a qualcosa di più semplice: creare vestiti, per tutti. Entrò in contatto con un tipo di Pokémon mai visto prima, il tipo folletto, e fu così che Spretzee e Mawile entrarono a far parte della sua vita, altri due preziosi compagni a renderle ogni giorno più emozionante del precedente.
Era stata la prima allenatrice a comprendere alla perfezione quella nuova specie del tutto misteriosa, e perciò riuscì a guadagnarsi il titolo di Capopalestra.
Era molto soddisfatta della sua vita, di come avesse preso il volo così facilmente; e in tutti quei grandi traguardi, lei c’era stata. A passarle tra le gambe, a consolarla quando stava male, e viceversa.
Un legame che nessuno avrebbe potuto spezzare.
Nemmeno ora, che per una disgrazia erano finite entrambe sole.
Per un… maledetto ragazzino del cazzo.

Valerie tirò un pugno contro la vetrata di casa quando quel pensiero macchiò di nero il flusso dei suoi ricordi, facendo tremare bruscamente la finestra.
Sentiva una rabbia ceca, un dolore sordo rannicchiato in mezzo al cuore; stava male, e ogni cosa dentro di sé finiva in miseri pezzi non appena compiva un passo.
Voleva piangere, ma si impediva di farlo, perché non aveva senso lasciarsi andare ad una futile disperazione.
E per questo, soffriva ancora di più.
Non riusciva a credere che un ragazzino di appena quindici anni, con quel viso candido e quegli occhi pieni di dolcezza, avesse potuto compiere una cosa tanto grave. Avesse potuto irrompere in una palestra e rubare un Pokémon.
Quando l’aveva visto, ieri, al bar, le era venuto a mancare un battito dal nervoso.
Primo, perché la situazione sembrava surreale.
Secondo, perché dal momento che purtroppo era vera, aver buttato l’occhio su quel moccioso le aveva inalberato dentro una strana soggezione.
Non sapeva spiegarsi perché se ne sentisse tanto “minacciata”. Qualcosa non andava in quel ragazzo, in quello sguardo quasi carino. Non era la faccia di un ladro.
"Valerie, ti prego. Sta calma. Andrà tutto bene, sei solo traumatizzata dalla situazione.
Si prese la testa tra le mani e ritornò a fissare la città oltre il vetro della finestra, in ansia. Timorosa.
Lucas ti farà sapere. Troverà quel ragazzo e te la riporterà sana e salva."

Sana. E salva.



-Buongiorno, signora.
Lucas si tolse il cappello alla francese dalla testa e chinò lievemente il capo quando, oltre la soglia d’ingresso, una donna dall’aria affettuosa gli si presentò in comode ciabatte di lana e l’elegante silohuette stretta in un grembiule rosa dalle cuciture adorabilmente intrecciate tra loro.
-Buongiorno! Posso aiutarla?
-Sono l’agente Lucas. Vorrei scambiare quattro chiacchiere con lei, se è possibile.
All’udire quelle parole pronunciate con tanto zelo, il volto tagliente della signora divenne una maschera d’ansia. Sembrava preoccupata. Beh, reazione del tutto giustificabile, dal momento che una visita da parte della polizia alle nove e un quarto del mattino era quasi sempre vista come insolita. -O-oddio. Prego, entri. Ma certo.- si fece di lato, accogliendo l’agente nel dolce tepore della colazione che aleggiava tra i mobili antiquati del piccolo appartamento. -Mi dia il giacchetto.
Lucas si sbottonò la giacca color navy e la consegnò alla signora.
Poi cominciò a guardarsi intorno sospettoso, passando sotto il setaccio ogni singolo metro quadro di pavimento. Aveva promesso alla Capopalestra di Laverre City che le avrebbe portato al più presto il suo Pokémon: ebbene, entro qualche ora, se tutto andava secondo i piani prestabiliti, avrebbe recuperato l’esemplare, sbattuto il moccioso in riformatorio e tornato con calma a casi meno urgenti.
Sperava tanto che la pista potesse portarlo a qualcosa di buono, e magari anche possibilmente rapido. Normalmente furti del genere venivano smantellati in fretta. I ragazzini non erano per niente bravi a giocare a fare i ladri, specie se osavano mettersi contro gente del calibro dei Capipalestra, o dei Superquattro.
Una mossa stupida, ignorante. Perché aveva compiuto un atto del genere?
Afferrò una foto che ritraeva il rapitore in quello che sembrava essere il primo giorno di scuola. Era vestito in un tenero golfino verde lime, i jeans sdruciti che gli si cacciavano sotto le suole delle scarpe.
Sembrava un ragazzino normale.
Faticava anche lui a credere che un bimbo del genere avesse potuto compiere un furto tanto orribile.
-Signore?
Si riscosse dai suoi pensieri e ritornò a concentrarsi sulla donna, rimasta appoggiata contro la porta in preda all’ansia più totale.
-Posso aiutarla? Offrirle qualcosa, magari?
-Sì. Gradirei delle informazioni, se non le dispiace. Su suo figlio.
Entrambi presero posto sul divano, uno di fronte all’altra.
-Sta seguendo i notiziari, signora?
-Certo…
La vide farsi piccola tra i cuscini color panna. Doveva aver intuito che il figlio si era cacciato in qualche guaio, ma era evidente la difficoltà nel capirne quale, e soprattutto, la gravità.
-Quindi sa anche che qualche giorno fa, uno dei tre Pokémon della Capopalestra Valerie è stato rapito.
-Certo.
Lucas si fece più vicino all’interrogata, gli occhi stretti in due sottili fessure color oceano. -Bene. E’ stato trovato un capello sulla scena del crimine, rosso come i suoi boccoli, signora.
La donna si toccò i ricci con mano tremante, inorridita.
Doveva aver capito.
Eppure aspettava comunque la conferma dell’agente, il colpo di grazia che l’avrebbe fatta deglutire di sdegno e rabbia.
-Il capello appartiene a suo figlio Trevor.
-N... c-cosa...?
-E' così.
-Non è possibile, io… m-mio figlio non è un ladro.
-Nessuno finisce nelle stanze private dei Capipalestra completamente a caso. Mi dispiace, ma fino a prova contraria, suo figlio ha lasciato un segno nella scena; ho bisogno di vederlo. Se anche non fosse il ladro - ma lo è, vedrà -, il suo dna è comunque finito sotto lente. Mi sa dire dove si trova ora? Non sembra essere in casa.
La donna avrebbe voluto gridare, portarsi le mani ai capelli e sfasciare i muri di casa: le tremava il labbro, a fatica riusciva a rimanere seduta, intrappolata nel grembiule rosato che a riguardarlo una seconda volta, sembrava quasi aver perso ogni traccia di bontà.
Lucas sospirò; era sempre brutto dover dare una spiacevole notizia ai genitori.
La cosa ancora più tremenda era che non era neanche in grado di consolarli. Per cui rimase lì, buono, in attesa di informazioni.
-Non lo so con certezza… ultimamente è sempre fuori… io e mio marito siamo sempre in giro per lavoro, rincasiamo solo il weekend. Ci fidiamo di lui.
-Sa se è rientrato per la notte?
-Sì, Trevor non fa mai le ore piccole… non è quel genere di ragazzo.
Lucas sollevò un sopracciglio: per lui gli adolescenti erano tutti scazzati uguali, non ce n’era uno che si salvava da quel giudizio spietato. -E questa mattina a che ora è uscito?
-Verso le sette… dice che da un po’ di tempo a questa parte frequenta degli allenatori, e che ha intenzione di mettersi ad allenare Pokémon insieme a loro.
-Sul serio non le ha detto proprio nulla su dove si possa trovare in questo momento?
-Ha parlato di un posto abbandonato…
-Non sa nient’altro?
La donna, ancora furente, scosse la lunga chioma color rame. -Mi dispiace agente… le posso solo dire che ho provato a chiamarlo sull’Hovolox circa un’ora fa, due volte, ma mi da il segnale irraggiungibile.
-O si trova in mezzo alle montagne, o sconfinato sottoterra. Gli Hovolox prendono quasi ovunque, di norma.
La vide sorridere mesta. Quel giovane doveva appena averla delusa nel profondo, il suo sconfinato dolore lo toccava persino da quella distanza.
Si rialzò, la ringraziò con una stretta di mano e, una volta fuori, cominciò a meditare sui possibili luoghi abbandonati presenti in tutta Kalos. Avrebbe potuto rintracciare la chiamata dal cellulare della signora, ma ci sarebbe voluto del tempo, e lui di tempo ora non ne aveva.
Non appena una possibile soluzione sembrò baluginargli nello sguardo assorto, fermò un taxi con la mano e montò dentro.
Si sentiva euforico, e il suo stato d’animo pressò su quello rilassato del taxista, obbligandolo a svegliarsi dalla placida noia in cui si era stravaccato.
-Dove la porto?
-A Laverre City. Più veloce che può!
Il taxi partì sgommando sull’asfalto, diretto verso l’ampio varco che dava ad una delle vie più pantanose e inquietanti di tutta Kalos.

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