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Lycia_ : ZERO - Capitolo 3: Grigio

In fondo avevo accantonato la mia vecchia me da tempo ormai, e con essa anche gli amici e i parenti che ne conseguivano. Non ero più nessuno. Zero.

Grigio



L’attesa aveva un che di snervante, non faceva altro che peggiorare il mio stato d’animo.
Continuavo a pensare a quanto fossi stata stupida, debole, e il mio cuore si riempiva di rabbia.

Pat, Lily…

Solo che dovevo mantenere il controllo: Zero non è Katrina.
Non più ormai.
Mi passai entrambi le mani trai capelli, li sentivo perfino più secchi e aridi del solito, sporchi.
Non che il resto di me fosse in condizioni migliori: la divisa era sgualcita, il lembo finale dei pantaloni sfuggito al controllo dello stivale e inoltre qualsiasi cosa indossassi sembrava aver virato dal nero intenso a uno scialbo grigio scuro.
Grigio come la mia faccia.
Grigio come i miei occhi.
Basti pensare che il maggiore tocco di colore erano le profonde occhiaie violacee e la lettera stampata sul mio petto sebbene anche lei sembrasse aver pesantemente risentito del mio incredibile effetto opacizzante.
Avevo passato volutamente la notte sveglia a fissare la mia lontana ancora di salvezza, la crepa. Pur di tenere distanti sogni e ricordi le avevo fatto assumere quasi tutte le forme possibili e immaginabili, perfino quella di un Charizard, ma poi era arrivata nuovamente la luce a rovinare tutto. Non si può combattere per sempre e alla fine, col sopraggiungere della realtà, la memoria aveva vinto la sua battaglia. E continuava tuttora a tormentarmi.
In fondo a cosa serve far aspettare una persona prima di riceverla se non per torturarla un po’?
Nel mio caso poteva essere benissimo parte della punizione che mi spettava.
Costringermi a vedere e rivedere i miei errori, senza sapere quale, magari spaventoso, effetto qualche stupida azione avrebbe potuto avere.
Mi sentivo sbagliata.
Io, così piccola e amorfa all’interno di quella lussuosa stanza troppo ampia, riccamente arredata con gusto e colori caldi, suadenti.
Pareti di legno pregiato, divanetti di morbido velluto rosso, scaffali ricolmi di libri dall’aria antica e preziosa.
E niente di freddo contro la quale appoggiare la fronte, niente che mi permettesse di contrastare l’eterna lotta che mi martellava in testa.

"Credi che sia stato facile trovarti?"
"Certamente non te l'ho chiesto io."

Mi morsi il labbro inferiore con forza ma nemmeno il dolore riusciva a calmarmi.

"Vieni via con me. Per favore.”

Senza pensarci presi in mano l'unica Pokéball che possedevo e la scagliai con forza contro la parete lucida, dallo schianto il Golbat uscì stridendo preoccupato in un fascio accecante di luce bianca.
"C'è troppa luce in questa maledetta stanza." sussurrai, appoggiandomi contro un muro, chiudendo gli occhi, ormai succube dei ricordi ancora freschi.

"Ma hai idea di che piani abbiano queste persone? Sai quanti Pokémon soffriranno? Vuoi dirmi che non te ne importa più niente?"
"Si."
"Non ci credo.”
"Vattene, non dovresti essere qui."
"No! Tu non dovresti essere qui! Non appartieni a questo mondo, tu... tu non sei cattiva, Katrina."

Su una cosa almeno aveva avuto ragione. Io non sono cattiva, non lo sono mai stata.
Semplicemente non sono più nessuno, non mi interesso più di nessuno.
Nemmeno me stessa.

"Ho bisogno di te. Ho bisogno di te per fermare il Team Rocket una volta per tutte, prima che sia troppo tardi."
"No, tu hai bisogno di Katrina: e io sono Zero."

Lo scenario era improvvisamente cambiato. Non stavo più aspettando, improvvisamente ero dentro con Giovanni, in piedi davanti all'immensa vetrata che occupava gran parte della parete.
Quando ero stata chiamata?
Mi ero mossa sovrappensiero, quanto tempo era passato da allora?
Tra le mani stringevo la sfera di Golbat, leggermente incrinata nel punto in cui aveva sbattuto.
Il Boss mi dava le spalle, le mani incrociate dietro la schiena e tranquillamente osservava i giardini lussureggianti della villa rosa antico. Un tocco verde nella brulla Isola Cannella, sapiente opera di giardinieri, artisti ma soprattutto costosi impianti d'irrigazione. Dei cinque piani di cui era composto l'edificio tre, quelli che s'innalzavano sopra il livello del terreno, erano tutte stanze del capo. Erano la sua casa, la sua cucina, salotto, piccoli spazi adibiti alle reclute che lo servivano, ai Generali. Il resto, lo spoglio e cadente sotterraneo, era dedicato agli "altri".
Noi, la feccia e l'anima del Team Rocket.
Le fondamenta nel vero e proprio senso della parola.

Era in silenzio. Non sapeva più che altro dire per convincermi e si limitava a fissarmi con i suoi penetranti e accesi occhi castani, resi ancora più cupi dal bagliore rossastro della stanza. Uno sguardo di rabbia, di preoccupazione, come un dito puntato al petto; accusatorio.
"Sai perché si decide di entrare a far parte del Team Rocket?".
Non le lasciai tempo di rispondere, a dire il vero cercai di anticipare perfino i suoi pensieri.
"Non è la nascita di sentimenti "malvagi", la maggior parte delle persone che sono qui non si muovono spinti dal desiderio di fare del male e nemmeno ci provano piacere. La recluta, quella vera, è semplicemente indifferente. Menefreghista."
Il Salamence dietro di lei mosse nervosamente la coda, sentivo Pat gemere poco lontano mentre cercava di alzarsi. Crobat si teneva a debita distanza, codardamente appeso al soffitto.
"È la disillusione il sentimento principale, la perdita di ogni speranza o di ogni pretesa sul proprio futuro." scossi la testa "Non è il giovane allenatore che decide di intraprendere una piatta carriera all'interno di una società criminale, è una persona che è maturata nella vanificazione dei propri ideali ... che, che ha perso se stessa o tutto quello che credeva di essere." Alzai lo sguardo, puntando il grigio nel nocciola.
Nessuna replica, nessuna risposta. La maschera di mia sorella era come ferro incandescente.

"Vedi... Katrina, o come preferisci farti chiamare... Zero, noi non ci siamo mai fidati veramente di te." L'uomo continuava a darmi le spalle, il suo tono era distratto, leggero come se stesse parlando del più e del meno. Il suo elegante Persian, disteso sulla scrivania, si stiracchiò miagolando sommessamente.
"Nessuno si fida di me." Ora poi, che avevo definitivamente troncato tutti i rapporti con Lily...
Vidi il riflesso delle labbra sottili di Giovanni distendersi in una piega divertita.
"Proprio per questo motivo ti ho fatto costantemente tenere d'occhio, spiare. Infondo prima che Ivan ti sistemasse per le feste hai dato non pochi problemi al Team Idro." Il Boss si tormentava i preziosi e sfarzosi anelli riccamente decorati che aveva sulle dita, girandoseli e rigirandoseli tra le mani.
"Non stavi nemmeno andando tanto male."
Notai che il felino teneva una delle sue zampe color panna sopra a un esile fascicolo marrone chiaro. "E alla fine cosa scopro?" rise, il suono era delicato ma severo, come quello di un padre che sta per rimproverare il figlio di uno stupido errore appena commesso.
"Pat. Pat! Un modo decisamente imbecille per chiamare un Rattata o mi sbaglio?". Poi si voltò: ogni traccia d'ilarità era improvvisamente scomparsa dai suoi tratti, sostituita da uno sguardo duro e freddo.
Eppure, nel suo tono continuavo a sentire una nota canzonatoria nei miei confronti.

"Ti odio."

"Mi sbaglio?"
"No." La sua espressione si distese ancora, ed ecco tornare il sorrisetto.
"Cosa ti aspetti che me ne faccia di te? Se non sei nemmeno capace di educare un Pokémon come si deve, a quale scopo potresti mai presentarti utile?".
Si mise lentamente a sedere, sbuffando sonoramente, come immerso in pensieri profondi.
"E questo non sarebbe stato nulla se tu avessi avuto il coraggio necessario a fermare l'intrusa, quella biondina insolente. Lei e il suo Salamence, si devono essere sentiti molto intelligenti a bloccarci dentro la sala principale fondendo la porta.". Chiuse le mani a pugno così forte che temetti le unghie o il metallo degli anelli gli sarebbero entrati nella carne.
"Quella Lily sa fin troppe cose per i miei gusti, andava fermata e tu che ne avevi l'occasione..." Mi lanciò un'occhiata penetrante, come se fosse capace di leggermi dentro e srotolare tutta la mia vita davanti al suo sguardo gelido.
Per un lunghissimo secondo mi resi conto di cosa provassero le pergamene.

"Allora vattene, vattene e non cercarmi più. Dimenticami come io stata in grado di fare. Sarà molto meglio per entrambe."

"La tua debolezza non rimarrà impunita."
"E' tutta la notte che aspetto di sapere come."

Mi guardò un'ultima volta prima di montare sul suo Salamance.
Non lessi altro che speranza mascherata di ferocia sul suo volto.
Non aveva ancora capito.
Dopo qualche secondo si decise finalmente ad andare, creando un varco nella parete con Gigaimpatto.
Solo quando le loro ombre si furono confuse nel cielo azzurro mi resi conto che la luce aveva inondato la stanza, combattendo contro il bagliore rosso dell'allarme.

"Ho un lavoro da assegnarti." disse infine, stavolta ghignando apertamente.
Quelle parole mi suonarono come una condanna.

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