VI
Un attimo di calma
Celia riaprì lentamente le palpebre. Vide una luce
artificiale e alcune sagome che piegate su di lei. Aveva un tremendo mal di
testa, percepiva il mondo circostante come fosse completamente ovattato: gli
analgesici ottundevano ogni suo senso. Era circondata da pareti bianche, ma
riusciva a sentire la presenza di un numero indefinibile di estranei. Sentiva
un brusio: forse solamente delle voci che non riusciva a decifrare. Sentiva la
bocca impastata e gli arti deboli e privi di forza.
«Meno male, chissà che abito del cavolo mi avrebbe
fatto mettere Platinum al tuo funerale...» disse Gold a pochi centimetri da
lei. Le uniche parole che riuscì a distinguere, l’unico volto che fu in grado
di mettere a fuoco.
Sorrise, gli mostrò il dito medio facendo uno sforzo
incredibile e chiuse di nuovo gli occhi, piegandosi al sonno. Gold alzò gli
occhi dal corpo addormentato della sua amica. Si trovavano in una corsia di
ospedale, il suo giaciglio erano dei cuscini sottili malamente adagiati sul
pavimento. Le barelle erano finite, le stanze pure. I medici scarseggiavano
mentre i bisognosi di aiuto e cure mediche sembravano aumentare di secondo in
secondo. Era passata solo mezza giornata dall’attacco terroristico: dodici ore
prima il Ponte Freccialuce stava crollando, i soldati stavano per riversarsi
per le strade e il messaggio di anarchia veniva trasmesso su tutti gli schermi
di Austropoli. Gold stava ancora pensando a cosa fare, Platinum lo stava aspettando
in sala d’attesa. Non aveva ancora riacquisito completamente la ragione dopo la
traumatica esperienza vissuta in Piazza Centrale.
«Ehi, ehi... tu, fermati un po’» borbottò il Dexholder
di Johto afferrando per il braccio un infermiere che passava di lì tutto
assorto.
«Che succede? E’ ferito?» si voltò lui cercando nel
frattempo di liberarsi dalla presa.
«No, vorrei sapere...»
«Allora mi scusi, ma ci sono delle emergenze di cui
devo occuparmi» lo interruppe lui, volatilizzandosi.
Gold rimase fermo lì, con un palmo di naso. Lanciò
un’occhiata a Celia, sembrava riposare serenamente. Le erano stati applicati
dei punti e somministrati alcuni analgesici. Fortunatamente, la ferita si era
rivelata molto meno grave del previsto, non vi erano state emorragie interne o
traumi cerebrali. Il tizio che l’aveva colpita lo aveva fatto senza alcuna
ragione, non era uno di quelli che si erano scatenati contro le forze
dell’ordine, soltanto un tossico portato alla violenza dal caos generale. Probabilmente
era morto su quella piazza, forse molto tempo prima aveva avuto una famiglia,
magari era stato giusto così, magari no.
«Si richiede a coloro che non sono in attesa di cure e
non fanno parte del personale medico, se possibile, di lasciare libera la
corsia» disse una voce all’altoparlante. Gold la sentì chiaramente. Prima di abbandonare
quel luogo mise la Poké Ball di Reuniclus nella mano di Celia, nascondendola
sotto quel lenzuolo sgualcito che le avevano buttato addosso. Lei aveva ancora
addosso la mini gonna e la camicetta provocanti che aveva sfruttato nella sede
della AxeCorp. A Gold parve giusto lasciarle anche la sua giacca. Era
bruciacchiata e lacerata, ma nessuno l’avrebbe usata per sfilare in passerella.
Quando tornò alla sala d’attesa, che era ormai ridotta
ad un sovraffollato rifugio per disperati, intravide immediatamente Platinum:
appoggiata ad un muro, logorata e grigia come un triste quadro antico. Non
palesò emozioni, vedendo arrivare il ragazzo.
«Ti porto fuori di qui» disse, prendendole
delicatamente il braccio.
Platinum si lasciò guidare, melliflua.
Molti civili stavano sfruttando l’ospedale come porto
sicuro in cui fermarsi per stare alla larga dalla strada. Le sale d’attesa e i
corridoi erano pieni facce sconvolte: principalmente senzatetto, insieme al
parente di qualche poveraccio che era stato ricoverato. Uomini con felpe
rovinate e sudaticce, donne dai capelli scompigliati e gli occhi vuoti, clochard
con fogli di giornale attorcigliati attorno alle scarpe malridotte. L’odore non
era dei migliori, la compagnia nemmeno. Qualcuno si era trovato un angolo dove
addormentarsi senza dar fastidio, altri girovagavano tenendosi ben stretti
borse e marsupi, animati da ansia e sospetto. Questi ultimi, ovviamente, erano
i benestanti: quelli che sarebbero già tornati a casa, se non fosse stato per
quel loro parente ferito da qualche teppista.
Appena fuori dalla struttura ospedaliera, quello che
una volta era stato un parcheggio veniva lentamente trasformato in un campo
rom. Gli sfortunati che avevano lasciato lì la loro auto avrebbero molto
probabilmente trovato solo una carcassa privata di sedili, apparecchi
elettronici e pneumatici. Tutti i poveri diavoli che si erano raccolti attorno
all’ospedale stavano allestendo una tendopoli, accendevano fuochi, creavano capannelli
e recinzioni con materiali di fortuna, potavano in loco i loro pochi averi
raccolti dentro buste bucherellate e carelli rubati a qualche discount.
Platinum e Gold passavano facendo molta attenzione a
non provocare nessuno e allo stesso tempo a non essere scambiati per due facili
prede. Presto si resero conto che le strade non erano più sicure.
«Dobbiamo trovare un posto dove stare ...e delle
provviste» disse Gold.
Platinum rimaneva ancora impassibile agli stimoli
esterni, ricambiava lo sguardo del Dexholder con i suoi occhi vitrei e spenti,
senza aprir bocca.
Tornarono in volo al Courtyard. La porta scorrevole
che dava sulla hall era stata sfondata, i frammenti di vetro che la componevano
erano distribuiti sul tappeto della reception. La sala principale era stata
abbandonata, un carrello delle valigie era stato abbandonato di fronte agli
ascensori, tutti i bagagli erano scomparsi. Evidentemente, dopo i negozi che
vendevano beni di prima necessità, gli hotel erano stati tra i primi luoghi ad
essere presi di mira dagli sciacalli. Probabilmente la precedenza era spettata
agli stellati e ai residence. Platinum e Gold presero l’ascensore, che era
ancora stranamente in funzione. Durante la salita, il Dexholder di Johto si voltò
verso la ragazza di Sinnoh. Le mise di nuovo le mani sulle spalle.
«Devi essere forte» le intimò «non lascerò che ti
succeda niente, ma tu devi fidarti di me... dobbiamo far vedere a queste
persone quanto valiamo» gli occhi dorati del ragazzo ardevano di una luce
intensa e spontanea.
Platinum, per la prima volta dagli avvenimenti di
Piazza Centrale, sembrò scossa da un’emozione. Annuì, recuperando un minimo di
vigore. Forse era stato lo sguardo di Gold a rassicurarla o, più probabilmente,
le sue parole. Non tanto per la loro minuziosa scelta, quanto per la sincerità.
E parole del genere, pronunciate da uno come Gold, erano mille volte più
preziose. Le porte dell’ascensore si aprirono, i Dexholder corsero alle loro
camere. Apparentemente, pochi teppisti si erano spinti fino al terzo piano: le
prime camere erano state violate, ma più si percorreva il corridoio, meno
frequenti diventavano le serrature forzate e porte ridotte in pezzi. Gold apri
la porta con un calcio, si rese conto di aver lasciato la chiave nella giacca
che era all’ospedale. Dentro, individuò immediatamente la sua bisaccia da
Allenatore, che lo accompagnava da anni nei suoi viaggi. Al suo interno c’era
già qualsiasi cosa potesse tornare utile ad un vagabondo scalmanato come lui:
merendine incorruttibili dal tempo, ben quattro powerbank per il cellulare, del
gel per capelli a tenuta extra forte, un deodorante finito da mesi e qualche
strumento Pokémon. Decise di infilarci dentro anche qualche vestito e sul
momento ebbe anche l’idea di cambiarsi. Tolse i pantaloni stretti con pinces e
bretelle e li sostituì con una tuta di felpa, tenne invece la camicia, il che
gli diede un look da modello coreano. Fece qualche apprezzamento su se stesso
allo specchio e uscì dalla stanza soddisfatto. La porta della camera di
Platinum era serrata. Gold l’aveva vista entrare però.
«Principessina» la chiamò «mi confermi di non essere
morta o faccio Bruce Willis?»
Nessuna risposta. Gold fece due più due, alla peggio
ci sarebbe stata la tipica scena in cui lui faceva irruzione e lei era mezza
svestita, in lingerie e rossetto. Il pensiero non gli dispiacque affatto. E poi
ad Austropoli c’era la legge marziale, la differenza d’età contava quanto la
laurea in una rissa da bar. Calcio ben assestato con spinta sul polpaccio a
quarantacinque gradi, la serratura usciva dal vano.
Platinum non era in camera, ma il suono dell’acqua che
scrosciava sulle pareti di una cabina doccia spiegava chiaramente la
situazione. Un tumulto, il rumore di una Poké Ball che si apriva, la porta del
bagno che veniva spalancata.
«Gold, sei tu!» esclamò la ragazza venendo fuori dal
bagno completamente fradicia, reggendosi un asciugamano attorno al corpo e con
Lopunny al seguito «cosa diavolo ti è saltato in mente?!»
«Non sapevo che stessi facendo la doccia...» sorrise
lui, felice della piega presa dalla situazione.
«E per questo sfondi la porta della camera?» si
congedò lei, tornando in bagno, dando comunque al ragazzo un involontario
scorcio della sua schiena nuda.
«Eh, qualche volta...» rispose lui, completamente
distratto dalla visione.
«Magari fattela anche tu, una doccia».
«Con te?» chiese lui, fiduciosissimo.
«Puoi scordartelo».
«Guarda che il treno non ripassa, prendere o
lasciare».
«Gold, fuori dalla mia stanza!» lo sguardo minaccioso
di Lopunny accompagnava perfettamente il tono di voce della Dexholder.
Il ragazzo dagli occhi dorati lasciò la camera. Una decina
di minuti dopo, Platinum usciva dalla doccia, si avvolgeva nell’accappatoio e
si strizzava i capelli. Era a pezzi. Nel piatto doccia erano rimasti mucchietti
di polvere e calcinacci. La ragazza si guardava allo specchio, riuscendo a
scorgere solamente un’ombra.
«Come ti sei ridotta, stupida...»
Il cellulare che era poggiato sulla mensolina del
lavandino prese a squillare. Sullo schermo un po’ appannato dai vapori
compariva la scritta:
Incoming
Call: Dia
La Dexholder attese alcuni secondi. Era indecisa,
combattuta. Poi ricordò le parole di Gold: doveva farsi forza. Rispose e mise
in vivavoce, poiché aveva la testa ancora tutta bagnata.
«Ehi, Dia, come va?»
«Platinum, finalmente riesco a contattarti!» esclamò
il ragazzo dall’altra parte.
«Scusami, ci sono stati alcuni problemi... voi siete
al sicuro? Com’è la situazione?»
«Duefoglie sopravvive, sono arrivati alcuni tizi con
scarponi e tute da sci, hanno messo al sicuro tutto il paese e stanno dando una
mano alla popolazione» rispose lui.
«Ah, i Montanari di Sidera».
«Esatto! Sono veramente dei tipi tosti! Comunque... tu
dove sei? Sei tornata da Holon? Abbiamo saputo di tutti i casini che ci sono
stati...»
«Ah, sì, in realtà ero a Sinnoh giusto pochi giorni
fa».
«E’ andato tutto bene? Sei tornata giusto in tempo per
la neve...»
«Infatti» rise «ma ora non sono a Sinnoh, ho dovuto
fare un toccata e fuga e ora sono nella regione di Adamanta per... lavoro»
spiegò sommariamente.
«Lo avevo capito, altrimenti avresti già risolto la
situazione!» anche Diamond sviolinò una risata.
«Beh, comunque spero di fare ritorno prima possibile,
ti chiamerò quando sarò di nuovo in zona» fece.
«Va bene. Comunque Pearl ci tiene a dirti di passare
ad Austropoli, sulla via del ritorno, magari dai una mano anche lì, loro mica
ce l’hanno una Platinum Berlitz» commentò il ragazzo.
«Figuriamoci, magari quando faccio scalo...»
Breve silenzio.
«Va bene, avrai mille cose da fare, fatti sentire ogni
tanto» si congedò Diamond.
«Certo, voi... vestitevi pesante».
Telefonata conclusa. Due minuti e sette secondi di una
squallida e deprimente prova attoriale.
Platinum uscì dal bagno e gettò uno sguardo ai vestiti
che aveva preparato e alla sorta di bagaglio che intendeva portarsi dietro
prima di abbandonare quel luogo poco sicuro.
Nello stesso tempo in cui con la coda dell’occhio ne
identificò la sagoma, Gold parlò col suo solito tono sarcastico: «O il tuo
ragazzo è un idiota oppure pensa che tu parli veramente così...»
«Ti ho detto di uscire!» gridò lei, presa alla
sprovvista.
«Ma sono fuori!» effettivamente, il Dexholder di Johto
aveva i piedi sulla linea che separava la moquette della stanza dal corridoio.
«Che pezzo di...» gli corse incontro lei «sei
veramente un cafone!» gli chiuse la porta in faccia, sbattendolo in corridoio.
«E tu una pessima bugiarda!» ribatté lui prima di
essere esiliato.
Platinum si appoggiò alla porta, come per impedirgli
di rientrare. Rimase immobile per qualche secondo a fare il punto della
situazione. Si sentiva immensamente in colpa, ma non per aver mentito a
Diamond. E in realtà non aveva neanche mentito, ma piuttosto omesso. No, si
sentiva in colpa per qualche altra strana ragione che non riusciva a comprendere
a fondo, partiva dal suo stomaco e la stringeva come una morsa dal basso ventre
fino alla gola. Sbuffò e fece finta di niente, tornando a prepararsi.
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