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Levyan - ILCC: VII - Facili prede


VII
Facili prede


Percorrere la quattordicesima avenue era diventata un’attività compatibile con la vita: la rivolta civile si era calmata, dopo ben 13 ore di molotov e sprangate sulla schiena, molti dei teppisti più guerrafondai e pericolosi si erano rintanati da qualche parte a progettare il prossimo attacco. I borghesi di Riverside Street erano stati tutti messi al sicuro, banche e hotel erano già stati saccheggiati. Tuttavia, ogni tanto era possibile scorgere qualche ragazzino che cercava di forzare la portiera di un auto parcheggiata o che usciva da un negozio con un carrello pieno di merce trafugata.
In così poco tempo, la città si era già completamente riconfigurata. Le botteghe che avevano avuto la sfortuna di occupare i piani terra erano diventati luoghi di proprietà pubblica ai quali si poteva attingere senza alcun permesso, solo sperando di non morire nel tentativo, trovando qualcuno con interessi simili ma armi migliori. Il processo di colonizzazione di piazzali, parcheggi e altre zone vicine a strutture pubbliche si espandeva lentamente a tutta la città: per gli sbandati e i senzatetto le strade non erano più sicure, tantomeno i ponteggi, gli angoli bui e gli stretti vicoli che erano la loro normale dimora. Con l’istituzione della legge marziale, teppisti e violenti erano usciti allo scoperto. Giravano in gruppo, come i lupi, in manipoli di quattro o cinque elementi. Erano tutti ragazzi, la cui età oscillava tra i quindici e i venticinque anni: portavano vestiti stravaganti, maschere e ostentavano orgogliosamente armi bianche ottenute con materiali di fortuna o armi da fuoco, bottino del conflitto con le forze dell’ordine o del saccheggio dei negozi di articoli bellici o da caccia.
Si stava ormai avvicinando il buio e i pochi civili che si trovavano ancora in strada si sbrigavano a rintanare. Probabilmente, la maggior parte della popolazione era terrorizzata: chi aveva figli stava barricando le entrate, preparandosi persino ad uccidere per difenderli, chi invece aveva parenti anziani arrivava a pensare di avere un peso in più rispetto agli altri. Ogni singolo essere umano che abitava quella città aveva già pensato di scendere in strada per rubare qualsiasi cosa gli venisse in mente, carezzando l’idea che quell’anarchia potesse addirittura essere benefica o catartica. La realtà aveva poi presentato il conto: non era un gioco né tantomeno un’opportunità. Non si aveva tempo per la cupidigia quando era difficile difendere la propria casa.
 Gold e Platinum camminavano accompagnati da Typhlosion ed Empoleon. Si guardavano attorno con fare sospetto, per evitare di cadere in qualche trappola o essere vittime di un agguato. Il piano era quello di tornare a verificare le condizioni di Celia e poi, eventualmente, trovare un luogo sicuro dove stabilirsi per passare la notte. La strada per raggiungere l’ospedale era parecchio lunga, ma avevano consapevolmente scelto di rinunciare ai loro Pokémon volanti. Con la discesa del buio, i cecchini appollaiati sui tetti sarebbero potuti diventare improvvisamente meno tolleranti nei loro confronti.
«Inizia a fare freddo» commentò Platinum, mentre passavano di fronte ad un’agenzia di viaggi, una delle poche attività la cui vetrina non era stata ridotta in frantumi.
«Che ne sai? Non vieni dalla Siberia, tu?» rispose Gold, in capo al gruppo.
«Che c’entra? È luglio e ci saranno dieci gradi, non è normale...»
«Il Natale arriva prima allora, come per i bambini con la leucemia».
«No credo sia per colpa della perturbazione che avvolge Sinnoh, le nubi si staranno espand... ehi, sei veramente una carogna, tu!»
Gold sghignazzò. Poi smisero di parlare, tornando a sentire solamente rumori di vetri scassati e, in lontananza, sirene della polizia sguainate dai teppisti più audaci: quelli che avevano deciso di rubare le volanti. Tra due auto a cui erano stati sfondati gli sportelli e rubati i pneumatici, passava un senzatetto vestito di stracci bucherellati, sulla spalla aveva un cartello con una scritta messa nero su bianco:
the end is nigh
Non rivolse un solo sguardo ai due Dexholder, passò oltre e continuò per la sua strada.
«Comunque ho sentito che stanno allestendo un tribunale» disse Platinum, dal nulla.
«...che?» Gold rimase lievemente spiazzato da quell’affermazione totalmente decontestualizzata.
«In ospedale...»
«Ah, quando eri muta».
«Idiota, comunque ho sentito che stanno organizzando una sorta di assemblea generale e utilizzeranno il tribunale come luogo di ritrovo: mi sembra di aver sentito qualcosa a proposito di una distribuzione delle provviste e un regolamento...»
«Ah, roba pallosa, comunque».
«No, dovremmo andarci, potrebbero avere bisogno del nostro aiuto»
«Amore... siamo Dexholder, catturiamo Pokémon, non facciamo riunioni di condominio».
«Ma no, è proprio questo il punto! Le persone non sono come noi, noi sappiamo combattere, possiamo lottare, lo abbiamo già fatto. Le persone non sanno come cavarsela quando è la loro vita ad essere in pericolo, noi potremmo essere l’unica linea di difesa».
«Dovremmo difenderli dai terroristi? Non so se hai capito, ma quelli sono in centinaia e noi siamo solamente due».
«Ok, non potremo organizzare un colpo di stato, ma se un giorno servissero dei farmaci o del cibo e il magazzino più vicino fosse dopo il deserto? Se qualcuno decidesse di ammazzare tutti i poliziotti o di far saltare l’ospedale? Non sappiamo quanto durerà questa cosa e soprattutto non sappiamo cosa abbiano in mente questi psicopatici, renderci utili mettendo le nostre forze insieme alle persone che abitano in questa città e intendono salvarla potrebbe essere la cosa più giusta da fare» sostenne la ragazza.
«Diventeremmo dei bersagli, noi siamo in missione in incognito, ricordi?»
«Infatti fino a ieri il basso profilo era una tua priorità, vero? E poi eravamo qui per cercare informazioni sulla FACES, ma chi ti dice che non ci siano loro dietro tutta questa messinscena?»
Gold si fermò. Aveva il volto corrucciato e lo sguardo serio, per la prima volta, agli occhi di Platinum. Era come se la sua frase avesse acceso in lui una scintilla.
«No, loro sono più i tipi da governo brutto e cattivo, sono degli uomini d’ufficio, dei contabili, come si dice... dividi e tempera
«Dividi et impera... sì, forse hai ragione... Gold, hai appena fatto una citazione classica?»
«Uhm, Coca-Cola e tette grosse» si corresse lui.
«Ok, meglio così».
Fzzz!
Quello stridio sordo ed elettrico falciò tutte le strade di Austropoli in un nanosecondo. Gli altoparlanti fischiavano forte, le luci iniziavano a vacillare. Era il segno che qualcuno stava armeggiando con i circuiti pubblici e che di lì a poco sarebbe stato trasmesso un altro messaggio. Anche i più piccoli rumori provenienti da lontano si chetavano, segno che tutta la città si preparava ad ascoltare con attenzione.
«Cittadini di Austropoli!» esordì la voce come al solito: era il solito presentatore in divisa e maschera Yamask, questa volta però Platinum e Gold non avevano modo di osservarlo su nessuno schermo, ma ne udivano soltanto la voce «abbiamo provveduto a isolare la città dai satelliti, tagliando connessioni e linee telefoniche. Era necessario, affinché il nostro piano non venisse ostacolato da esterni. Tuttavia, non vogliamo privare la città della propria umanità e dignità, per cui abbiamo deciso di rendere pubblico tramite i nostri mezzi di comunicazione che una scuola elementare, nella Midtown, tra le venticinquesima Avenue e la settantatreesima Street è tenuta in ostaggio da un gruppo di criminali in cerca di guai. Invitiamo chiunque volesse essere d’aiuto a dei poveri innocenti ad intervenire repentinamente...»
Platinum pareva congelata, Gold era nero.
«Non è distante da qui» disse il ragazzo.
«E’ una trappola» ribatté lei.
«Cazzo-puttana-merda! Cinque secondi fa dice...»
«Ho detto che è una trappola, non ho detto che non andiamo» corresse il tiro.
Undici parallele erano tante da farsi a piedi: Togekiss sfrecciava aerodinamico a due metri e mezzo dall’asfalto, al centro della carreggiata. I due Dexholder in groppa, ma lui non sembrava sentirne quasi il peso. Imboccarono la venticinquesima in meno di tre minuti, Gold si lanciò a terra prima che Togekiss iniziasse la manovra per l’atterraggio. Platinum lo raggiunse subito dopo. Si percepiva la vibrazione nell’aria, il chiacchiericcio, l’allerta, ma nulla di esagerato: poteva benissimo essere solamente la sala d’attesa di un ambulatorio di analisi. Era diverso dalle solite scene del disastro a cui si erano ormai abituati. Sul posto: due volanti della polizia, una decina di agenti e una dozzina di genitori allarmati, qualche transenna, due senzatetto. Niente curiosi, erano a casa terrorizzati e niente giornalisti, non c’era più una rete su cui trasmettere o un giornale su cui scrivere.
«Che sta succedendo?» domandò Platinum spuntando alle spalle di una donna sulla quarantina con la giubba da poliziotto stretta sopra ad una blusa turchese e dei pantaloni a palazzo al posto di quelli dell’uniforme, segni che quello sarebbe dovuto essere il suo giorno libero, se la città non fosse improvvisamente piombata nel caos.
«Ragazzina, se sei qui perché rispondi alla chiamata dal tizio degli altoparlanti, io...»
«Ci dia una risposta» si intromise Gold, gli occhi dorati come fari nella notte, in mezzo alle tenebre che gli erano calate sul volto.
A una decina di metri da loro, l’edificio che dall’esterno appariva tranquillo, meno agitato che durante una normale giornata di lezioni.
La poliziotta sbuffò, un po’ restia «non sappiamo quanti siano, ne abbiamo stimati sei o sette, sono armati ma non sembrano esserci state ancora vittime. Hanno con loro sessantadue ragazzini e due maestre, erano due classi rimaste per un laboratorio serale» chiarì.
«Che cosa vogliono?» chiese Platinum.
«La testa del governatore».
A Platinum sembrò scattare qualcosa dentro.
«Sono alleati di quelli che hanno attaccato Riverside Street?»
«Sono vestiti diversamente e agiscono in maniera meno organizzata... e poi dopo la comunicazione che è stata trasmessa in tutta la città, avremmo ragione di credere di no».

Le entrate non sembravano sorvegliate, ma la scuola sorgeva in un ampio campus libero da altri edifici nel raggio di duecento metri, quindi sarebbe stato facile per i tizi che erano all’interno individuare anche il più piccolo movimento nel cortile che circondava l’istituto. Tra alberi, siepi e scivoli, sarebbe stato pure possibile inventarsi delle coperture, ma era un lavoro incredibilmente complicato. All’interno, con l’M16 ben stretto tra le mani, uno dei terroristi sorvegliava l’ala est, con gli occhi fissi sul prato smorto che era sotto la sua finestra. In lontananza scorgeva alcuni agenti, ma aveva dietro di lui cinque bambini seduti sul pavimento con delle fascine avvolte attorno a polsi e caviglie, nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di centrarlo con un fucile di precisione. Ogni minuto, Riley, uno dei suoi compagni addetti alla sorveglianza, passava nel corridoio adiacente alla sua aula dandogli l’ok di circostanza. I bambini piagnucolavano silenziosamente, terrorizzati, mentre lui faceva avanti e indietro tra i banchi calpestando i fogli di quaderno riempiti di vocali e consonanti scritte in corsivo minuscolo, solcate con forza da mani infantili. Nell’aria c’era una strana puzza, come se qualcosa non andasse con i termosifoni. Ma né i criminali né gli ostaggi avevano tempo di preoccuparsene.

«Le fognature?» chiese Platinum.
«E’ una scuola elementare, ragazzina, dovresti essere alta venti centimetri per uscire dall’altra parte» rispose la poliziotta.
Nella palestra, sotterranea e protetta, era stato ammassato il maggior numero di ostaggi. Di questi, nessuno era legato, ma erano tenuti a vista da due sorveglianti armati di Uzi. Una quarantina di bambini erano seduti al centro del campo da pallacanestro. Le maestre, su ordine e minaccia, li tenevano buoni e tranquilli. I marmocchi stavano a terra, senza tirare un fiato, con gli occhi fissi sulle signore tremanti che fino a poco prima stavano insegnando loro la retta dei numeri e le forme geometriche.
«Cavi elettrici? Allacciature telefoniche?» riprovò la ragazza.
«Dovremmo sfondare il muro, se ne accorgerebbero» rispose di nuovo la donna col distintivo.
«Potremmo arrivare dall’alto, volando» propose Gold.
«E i cecchini?» chiese Platinum.
«Qual è il palazzo più alto, in questo quartiere?»
«Ehm, credo sia la Foundation Tower, due isolati a est» rispose la poliziotta.
«Ci saliamo sopra, controlliamo che non ci siano tiratori nella zona o, eventualmente, li togliamo di mezzo poi entriamo nella scuola dall’alto con Togekiss senza essere colpiti».
«Potreste farcela».
«Ok...» acconsentì Platinum, poco convinta «da dove cominciamo?»
«Fate in fretta, però: abbiamo ancora venticinque minuti prima che scada l’ultimatum dato dai terroristi» aggiunse la poliziotta.
I due Dexholder raggiunsero la Foundation Tower. Era un grosso palazzo di vetro in stile nuovo millennio, tipico di quella zona della città. In mezzo ad altre svettanti architetture di metallo faceva la sua bella figura, nuova e vecchia generazione, in un’omogeneità di stili e forme. Avrebbero dovuto scalare ben quarantasei piani, completamente sfiduciati a proposito della disponibilità di un qualsiasi ascensore. Fortunatamente, il palazzo sembrava essere stato evacuato. I primi piani erano veramente inquietanti: tutte le scrivanie erano state rovesciate e i dispositivi elettronici portati via. Probabilmente quella mattina qualcuno era entrato lì timbrando il cartellino, eppure sembrava un luogo rimasto abbandonato per mesi.
«C’è corrente» notificò Gold, chiamando l’ascensore.
«Siamo sicuri di non allertare nessuno?»
«No» rispose il Dexholder di Johto, facendo uscire Typhlosion dalla Poké Ball.
Platinum lo seguì, anche non approvando i suoi metodi. Raggiunsero il quarantatreesimo piano dell’edificio fissando il pavimento dell’ascensore, nel totale silenzio. Quando le porte si aprirono, Gold uscì per primo. Rapida occhiata attorno: non vide nessuno. Si trovavano in una sorta di superattico, un appartamento vuoto e disabitato ma che, in mano ad una mano esperta di interior design sarebbe potuto diventare un appartamento da parecchie centinaia di migliaia di Pokédollari al metro quadro. Le grandi vetrate davano sul quartiere sottostante, ampie e luminose. In lontananza era possibile scorgere il fiume e l’orizzonte che andava pian piano scurendosi, essendo l’edificio rivolto verso ovest.
«Dobbiamo salire sul tetto» fece Gold, senza fermarsi un secondo di fronte al panorama.
«Vedi delle scale?» chiese Platinum.
Dovettero fare tre piani a piedi: il primo sembrava essere completamente vuoto, necessario solamente a fini di stabilità, il secondo era una soffitta polverosa piena di mobili dimenticati e il terzo era una mansarda le cui pareti non erano neanche state intonacate e i cui corridoi si erano col tempo riempiti di calcinacci e polvere. Gold fece un’ultima rampa di scale e si trovò di fronte ad una porta di metallo arrugginito. Era chiusa con un catenaccio, ma non sembrava essere particolarmente stabile. Tre calci e l’intero archetto cadde a terra. Non appena furono fuori, un’ondata di gelo li investì. Soffiava un vento fortissimo, dal forte odore di salsedine, ma pungente come un fioretto. Gold sembrò essere scosso da un brivido: l’ultima volta che era salito su un edificio del genere e si era ritrovato sulla cima, con quella forte corrente che rendeva quasi difficile stare in piedi, era stato con Green. Non era poi passato molto: qualche decina di giorni prima, ad Hoenn, sulla Torre Cielo. Vi avevano scoperto il cadavere di Murdoch, uno dei Superquattro di Holon che ucciso a sangue freddo da Zero. Sembrava passato un secolo, come fosse stato una vita fa.
«Dobbiamo fare in fretta» lo spronò Platinum.
Gold era già a lavoro: camminava lentamente, un passo dopo l’altro, verso il parapetto. Da lì avrebbero dovuto trovare il modo di eliminare i cecchini appostati sui tetti sottostanti, o al limite passar loro inosservati, per poi precipitarsi in picchiata sulla scuola elementare.
«Sei sicura di non avere Pokémon che volano, lì con te?» chiese Gold.
Platinum non rispose. Il Dexholder si voltò.
Click-clack.
Un uomo con una pesante divisa nera, dei pantaloni con numerose tasche e un grosso fucile in mano stava puntando l’arma proprio verso di lui.


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