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Levyan - ILCC: IX - Terra di nessuno



IX
Terra di nessuno


L’autista tirò il freno a mano. I pneumatici fecero attrito con l’asfalto, emettendo un fastidioso stridio e lasciando nell’aria un sgradevole odore di plastica bruciata. A precipitarsi fuori dall’auto, in camicia e blazer, fu un uomo dai capelli brizzolati, sulla cinquantina; i suoi occhi erano chiarissimi ma nascosti dall’oscurità di una profonda preoccupazione. Si muoveva nervosamente, affannoso e poco avvezzo alla fretta. Cinquanta metri più avanti, un poliziotto parve scrutarlo, assottigliare lo sguardo e infine riconoscerlo.
«E’ il Governatore! Tenente, c’è il Governatore!» si rivolse al suo superiore.
Le forze dell’ordine si trovavano ammassate dietro alla linea insuperabile formata dalle transenne. Sul posto c’erano due volanti e una ventina di civili. Ancora più in lontananza, la scuola elementare.
«Sono stato allertato dai cittadini, sono ancora in tempo?» fece l’uomo.
«Lo è, Governatore, finalmente qualcuno con cui vorranno negoziare!» esclamò il tenente, felice per l’inaspettata sorpresa «dobbiamo sbrigarci, le diremo cosa...»
Un boato scosse l’aria, l’onda d’urto fece quasi cadere tutti coloro che erano sul posto. Per coloro che erano rivolti verso la scuola, l’orrendo spettacolo si consumò in pochi secondi. Le finestre esplosero, frantumate da lingue di fiamme che fuoriuscirono in maniera omogenea da tutto l’edificio. Il tetto cominciò a crollare, collassando su se stesso, alcune pareti lo seguirono, riducendosi in frantumi sotto la trazione dell’anima metallica di tutto il palazzo. Un attimo dopo l’esplosione, la scuola era ridotta ad un cumulo di macerie. Le fiamme venivano debolmente soffocate dalla polvere, le mura che erano ancora in piedi rovinavano lentamente e inesorabilmente, pezzo dopo pezzo. Una sagoma, appena sopra al luogo del disastro. Anzi, tre: un Togekiss che sorreggeva due esseri umani, il primo era un ragazzo con degli strani abiti mal assortiti, la seconda era una ragazza dai lunghi capelli scuri.

Tre mesi dopo

«Oliver! Non dimenticare le risme di fogli e i sacchi di pellet!» gridava la donna con il camice della sala stampe.
«Non ti preoccupare, però stavolta voglio qualche verdone in più» rispondeva il ragazzino, percorrendo il largo corridoio.
Oliver, o Oliver “Il biondo”, aveva quindici anni e neanche un pelo in faccia, si occupava di rifornimenti. Entrava e usciva almeno dieci volte la settimana dal palazzo della prefettura, uno dei luoghi più sicuri della città, nel quale circa mille persone avevano trovato riparo nei mesi precedenti. Con il suo gruppetto di amici portava spesso cibo e medicinali, più raramente dei mobili o degli elettrodomestici. Tornava con i suoi carrelli del Walmart riempiti di scatole trovate chissà dove, in cambio la gente gli offriva da mangiare e gli dava anche qualche soldo. Poi se ne andava. Nessuno sapeva dove dormisse né cosa facesse in quei giorni in cui non si presentava. Un professore della Downtown diceva di averlo avuto in classe qualche anno prima, in terza media. “Frequentava poco, si addormentava durante le lezioni, è stato espulso al secondo semestre per aver venduto del fumo nei bagni, a ricreazione” diceva l’uomo. Comunque, a nessuno interessava. Lui portava i rifornimenti, faceva prezzi migliori dei tizi in divisa e, se gli chiedevi qualcosa, bene o male sapeva sempre dove trovartela.
«Hai un hot-dog in più, Sandy?» chiedeva Oliver, passando davanti agli uffici dell’ala est, da qualche tempo adibiti a cucine.
La signora con la vestaglia unta che era davanti alla piastra sfrigolante infilava una salsiccia dentro un panino raffermo e ci scolava sopra qualche goccia di ketchup raggrumito «La prossima volta però le padelle le voglio antiaderenti, Biondo. Non posso mica cuocere una frittata senza poterla girare!» si lamentò lei, allungandogli lo spuntino.
«Padelle antiaderenti, stanno già sulla lista» confermò Oliver, addentando il wurstel.
Lasciava la cucina e imboccava il corridoio principale, che dopo due porte di vetro lo conducevano alla sala grande. L’ingresso della prefettura era il luogo in cui si concentravano più civili. Il grande salone dall’alto soffitto ad ampie volte ospitava numerose tende, brandine, sacchi a pelo e bidoni al cui interno erano stati accesi dei falò. La gente stava lì per la maggior parte del tempo. Chiacchierava, barattava degli oggetti di uso comune, aiutava a trasformare quel rifugio improvvisato in un luogo in cui fosse possibile vivere. Qualcuno aveva trovato il proprio angolino, aveva appeso dei poster sui muri e si divertiva a suonare la chitarra tutto il giorno. Tanto, un piatto di minestra, lo si rimediava sempre. Da qualche settimana era anche possibile lasciare le borse e i propri averi incustoditi. Ormai, nella Tribù della Prefettura, ci si conosceva un po’ tutti. C’era aria di collaborazione e solidarietà, con qualche litigio ogni tanto, come in una famiglia allargata. Il palazzo era animato dalle chiacchiere e dal lavoro frenetico alternato a momenti di tranquillità. C’era chi veniva da fuori portando della novità sul resto della city di Austropoli, chi invece si alzava la mattina e decideva di diventare il nuovo parrucchiere della tribù, chi accendeva il fuoco con i documenti dell’archivio che era nei sotterranei e chi, come Oliver e i suoi amici, portava cibo e altri beni di prima necessità dagli altri quartieri.
Il ragazzo scese al piano inferiore, fece un cenno i suoi amici che lo stavano aspettando nel salone principale e questi si apprestavano a tornare in strada. Chiudevano la lampo del piumino, avvolgevano le sciarpe e stringevano i lacci dei doposci. Erano tutti adolescenti, nessuno superava i quindici anni, le guance sbarbate e i capelli arruffati. Vestivano abiti macchiati e sporchi e fischiavano alle ragazzine che si dirigevano verso le aule studio dell’ala sud. Rivolgevano la parola a qualcuno solamente per scroccare. Se gli davi corda, continuavano a chiedere, se li prendevi in giro, loro ti guardavano indispettiti e facevano battutacce sul tuo conto, sghignazzando a voce alta.
«Due testoni come la volta scorsa, la prossima volta le pasticche le portiamo alla stazione, qui hanno il braccino corto» disse ai compari.
Lamentele generali da parte del gruppo, che evidentemente si era prefigurato un compenso più alto.
«Il paracetacoso serviva due settimane fa, Biondo. Mo’ la gente si è abituata al freddo, non ci alzi più un centesimo» rispose uno dei ragazzini.
«Comunque il prossimo colpo è facile, cibo generico, carta e pellet per la stufa, ce la caviamo ancora con il centro commerciale della centosedicesima» ribatté Oliver.
«Andiamo fino a là? Si potevano fare altri due carichi oggi, così perdiamo il pomeriggio tutto...» si lamentò un altro compagno.
Oliver sbuffò «Stavolta tiriamo sul prezzo, è un’ordinazione. Ho deciso così e facciamo così» stabilì.
Il gruppo non era entusiasta, ma nessuno si oppose al leader.
«Andate fino alla centosedicesima avenue?» chiese qualcuno dalle retrovie.
I ragazzini rivolsero lo sguardo verso una ragazza. Vestiva un lungo cappotto di lana infeltrita e dei lunghi capelli lisci e scuri raccolti dal cappello bianco che aveva in testa. I suoi occhi brillavano come gli orologi dei neri dei quartieri pericolosi. Probabilmente aveva la loro stessa età, ma il suo volto era candido, i suoi lineamenti delicati.
Oliver si voltò e la scrutò dalla testa ai piedi. Da come era vestita e dalla neve che aveva sugli stivali, dedusse che era arrivata da poco, inoltre non gli sembrava di averla mai vista in giro per la prefettura. «Sei una di fuori?» le chiese.
«Sì, sarei solo di passaggio, in realtà» rispose lei, alzando il mento.
«Noi non ci fidiamo di chi è di fuori» rispose uno dei compari di Oliver il Biondo.
«Voglio venire con voi» disse la ragazza rivolgendosi al leader, ignorando il resto dei ragazzi.
Oliver continuava a squadrarla.
«Stronzetta».
«Si vede che era una coi soldi...»
«E’ piatta ma ha un bel culetto».
Commentava il gruppo, con ronzanti mormorii. Lei fingeva di non sentire e continuava a fissare Oliver, intensamente come due giocatori di poker.
«Che devi fare, alla centosedicesima, non sai che è pericoloso?» chiese Oliver.
«Cerco un amico» rispose lei «lo so bene, ho solo bisogno di qualcuno che mi accompagni per il viaggio».
«Mi sa di averti già vista da qualche parte...»
La ragazza non rispose.
«Comunque non so se possiamo aiutarti, è difficile stare al nostro passo» fece Oliver.
«Sono sicura di riuscirci».
«Ma ti occorrerà protezione, là fuori» commentò uno degli altri ragazzi.
Lei scosse la testa, frugò in una delle tasche del cappotto e ne estrasse un biglietto da cento Pokédollari. Vide gli occhi dei ragazzi illuminarsi al cospetto della banconota.
«Aspetta» si interpose Oliver.
Lei fece cenno di essere all’ascolto.
«Quando lo hai visto l’ultima volta, questo tuo amico?» chiese il Biondo.
«Due mesi fa».
«Lascia stare, allora» le voltò le spalle.
«Ehi, no. Senti. Se si tratta di soldi...»
«No» la interruppe Oliver, senza girarsi «sei una per bene, è un rischio portarti con noi. Non sai come funziona là fuori» continuava a camminare verso l’uscita.
La ragazza sbuffò, così come il resto del gruppo, alla vista di quell’opportunità di guadagno che sfumava.
«Ho dei Pokémon, con me» fece allora la ragazza.
Oliver si immobilizzò. Tornò sui suoi passi, girandosi verso di lei «sei un’Allenatrice?»
La ragazza annuì.
«Lo dicevo che era ricca» commentava uno dei ragazzini.
«E che roba hai? Possono lottare?» chiese Oliver.
«Sono molto forti».
Il Biondo ci rifletté per qualche secondo «se rimani indietro, nessuno ti verrà a prendere» disse poi, incamminandosi di nuovo verso la porta principale.
«Non ce ne sarà bisogno» sorrise la ragazza dagli occhi luminosi.

La neve attutiva il rumore dei passi sull’asfalto. La città era silenziosa: di giorno pochissimi scendevano in strada. Un delicato manto bianco copriva strade e marciapiedi, indistintamente. Nessun solco di pneumatici, era segno che il giro di ronda era avvenuto parecchie ore prima e, di conseguenza, si sarebbe ripetuto a breve. Era un luogo pacifico, uno dei pochi a non essere in mano ai soldati e ai criminali, differentemente dalle zone interne. La Downtown, affacciandosi sulla costa, era uno dei luoghi più tranquilli di Austropoli: pochi Riders, pochi cadaveri, poche guerriglie; era stato il primo luogo ad essere saccheggiato di tutta la città, per cui aveva già perso ogni tipo di attrattiva dopo Oliver poco tempo. La maggior parte dei civili si era rintanata lì, cercando riparo nei grandi edifici, organizzandosi in tribù. Vivere insieme, nello stesso luogo, amministrando provviste e altri beni di prima necessità permetteva la sopravvivenza anche ai pesci piccoli. Essere soli significava diventare facili prede prive del lusso di distrarsi per un solo secondo. Erano in pochi a poterselo permettere e nessuno di questi viveva nella Downtown. Questa zona, inoltre, era la più vicina al mare: un domino di grandi palazzi e alti grattacieli che si elevavano dalla penisola, il tipico panorama da cartolina che era possibile fotografare dal Ponte Freccialuce. La Downtown era stata concepita come una enorme mano: cinque moli come dita e il resto del quartiere come un palmo aperto, ad accogliere turisti e viaggiatori. Un tempo.
Poi i moli erano stati distrutti e del Ponte Freccialuce era rimasta solamente una carcassa di cemento sgretolato. Da mesi ormai nessun ferry boat pieno di turisti intenti ad immortalare il tramonto sui palazzi di Austropoli solcava più quelle acque. Si scorgevano in lontananza gli elicotteri dei giornali e delle forze dell’ordine. Cercavano di tenere sotto controllo la situazione, senza avvicinarsi troppo per non suscitare le ire dei soldati che tenevano la città in ostaggio. Due settimane prima, un elicottero di giornalisti aveva superato la linea di sicurezza, posta a un miglio dalla costa, a causa del vento che spingeva verso nord. Una luce aveva illuminato il cielo e un cartoccio di lamiere era precipitato in acqua, avvolto dalle fiamme. Per qualche giorno, nessun velivolo si era più alzato in volo. Poi, timidamente, erano tornati tutti. Scrutavano la city da lontano, osservando gli abitanti costretti a rinchiudersi come topi in attesa di qualcuno che venisse a prenderli. Quel quartiere, un tempo meta turistica animata dalla vita notturna e mondana, era diventato una baraccopoli per civili che cercavano di sopravvivere. Erano così vicini. E così irraggiungibili.
Oliver udiva il rumore di uno di quegli elicotteri in lontananza, alle sue spalle, mentre si rivolgeva verso nord. Aveva la mappa di Austropoli fissa nella mente, come chiunque con la planimetria della propria abitazione. Avrebbe potuto percorrerla ad occhi chiusi, solamente sentendo il terreno scorrere sotto i piedi, contando i passi, percependo l’aria. Il piano era di farsi tutto il percorso possibile in superficie, magari fino alla sessantottesima, per poi scendere nelle fogne e proseguire direttamente lì sotto. La sua banda lo seguiva, immersa in un silenzio spezzato ogni tanto da qualche commento triviale o da qualche battutaccia. A metà tra il capogruppo e la ciurma, camminava la ragazza. Aveva un passo svelto e sicuro, non appartenente a chi aveva vissuto tra sete delicate e profumi inebrianti. Sembrava avvezza a percorrere le lunghe distanze, a non lamentarsi della mancanza di pause, provviste e comfort vari. Ogni tanto, Oliver si girava a controllare che nessuno battesse la fiacca. La banda si zittiva immediatamente, come attendesse di sentirlo commentare la lentezza della nuova arrivata. Ma lui non aveva niente da obbiettare. Tornava a guardare avanti ed accelerava il passo.
«Allenatrice» la chiamò ad un certo punto Oliver.
Lei accelerò il passo, mettendosi a camminare al suo fianco.
«Una volta che ti separerai da noi, dovrai combattere, lo sai?»
«Sono già stata ad Austropoli nord, so come funziona» rispose lei, senza vacillare.
Oliver mostrò sincero stupore. Tacque, squadrandola dalla testa ai piedi con curioso rispetto.
«Qualche problema?» domandò lei, un po’ infastidita da quell’ispezione.
«Cerco di capire se sei bugiarda, stupida o...»
La mora trasse un sospiro altamente seccato «O...?» chiese, falsamente interessata.
«Aspetta» si distrasse il ragazzo, fermandosi immediatamente.
La banda alle loro spalle non emise fiato. La ragazza fu abbastanza audace da imitarli immediatamente, evitando lo spreco di secondi preziosi.
«Dobbiamo nasconderci» Oliver lanciò occhiate a destra e a sinistra, puntando infine lo sguardo su una vecchia lavanderia la cui entrata era stata fracassata settimane prima e che era rimasta vuota e buia per chissà quanto tempo «là» esclamò.
Tutti insieme scattarono verso l’ingresso del piccolo locale, Oliver fu il primo a raggiungere la porta e l’ultimo a precipitarsi all’interno «Sulla pancia» ordinò.
Il trucco era chiaro: trovare un luogo poco appetibile agli occhi di eventuali sciacalli e nascondersi alla ben e meglio, per tutto il tempo necessario a far scadere il pericolo.
Dopo alcuni secondi, il rumore che aveva allarmato Oliver si fece più vicino e udibile da tutti. Si distinsero nell’aria il fiero rombo di una moto e l’ingolfato incedere di un furgoncino. Andavano a passo tranquillo: si trattava della ronda giornaliera. La formazione più tipica, un Rider e un piccolo gruppetto di soldati. Di solito usavano pick-up, vecchie ambulanze o addirittura dei SUV. Si lasciavano ben vedere da tutti: i volti coperti con dei passamontagna, le divise nere con delle tinte rosse, le armi ben salde tra le mani, le tasche piene di chissà quale diavoleria. Raramente intervenivano, ma il loro fare minaccioso bastava a tenere la popolazione sull’attenti. Durante le prime settimane si erano mantenuti nell’ombra, senza mai imporre il proprio volere sulla città. Con il tempo, poi, incidente dopo incidente, l’organizzazione aveva compreso che Austropoli non sarebbe riuscita ad autogovernarsi senza essere corrosa dai propri conflitti interni e aveva istituito una ronda, un corpo di sorveglianza che fosse in grado di limitare guerriglia e continue risse stradali.
«Passano oltre, prendono la trentaquattresima e fanno il giro» disse Oliver, ricordando a grandi linee i percorsi giornalieri delle ronde di sicurezza. Il ragazzo gettò un occhio alla ragazza, l’unico membro imprevedibile del gruppo. Fu sorpreso di vederla tanto preparata e sicura di sé in una situazione come quella: forse era sincera quando diceva di aver già avuto a che fare con le zone pericolose della città. Lei rimaneva prona sul pavimento di quella lavanderia, senza lamentarsi dei cocci di vetro e dello sporco che era a terra, l’occhio vigile fisso sui soldati, la postura corretta, pronta a scattare nel momento del bisogno. Il Biondo non poté eludere un pensiero: perché mai un’Allenatrice preparata come lei avrebbe dovuto chiedere la compagnia di un gruppo di scalmanati come il suo?
La moto e il furgoncino passarono oltre senza lanciare una sola occhiata alla lavanderia. Il rumore dei due veicoli si fece sempre più lontano, sparendo nel giro di qualche secondo. L’intera squadra attese il cenno di Oliver per rialzarsi e tornare in marcia. Uno dei ragazzini fece una battuta su come avrebbe voluto rubare quella moto e tutte le armi che secondo lui erano stipate nel furgoncino. Sosteneva di aver rubato e guidato il chopper di un tizio del suo quartiere e di essere quindi un intenditore. Proseguirono su quel percorso per decine di isolati, tra carcasse di auto e marciapiedi sporchi. Via via che ci si allontanava dal mare, il nevischio diventava sempre più consistente e i rumori provenienti dalle vie intestine della città più chiari. Le avenue si facevano lerce e invase da detriti e pezzi di automobili, arredamento e componenti elettrici. Neanche a dirlo, le vetrate dei primi piani di tutti gli edifici non esistevano più. Ogni negozio era stato puntigliosamente saccheggiato, ogni bancomat estratto dal muro, ogni portone scardinato. Il viaggio proseguì senza altri incontri inattesi, fatta eccezione per qualche teppistello che cercava componenti metalliche, scoperchiando il telaio di alcune auto abbandonate. Con la discesa della sera, i mercenari-vigilanti si ritiravano nelle proprie tane. Nessuno sapeva dove alloggiassero, qualcuno diceva che in cambio di protezione ricevevano vitto, alloggio e compenso dai borghesi più ricchi della città, i broker che loro stessi avevano cacciato da Riverside Street, tre mesi prima. Giusto per dare un’idea. Non era difficile credere ad una voce simile, in pochi avevano incontrato i borghesi per le strade di Austropoli, dopo l’attacco. E tutti riferivano di averli visti accerchiati da una scorta di soldati, tutti vestiti come quelli delle ronde giornaliere.
Il gruppo giunse alla sessantottesima strada che il cielo si faceva plumbeo e le ombre sempre più allungate e trasparenti. Sarebbero scesi nelle fogne, per proseguire il viaggio in sicurezza. La superficie non era mai un luogo sicuro, neanche per delle facce conosciute come Oliver e i suoi. Tantomeno lo era la metro, che da qualche tempo era diventata una sorta di mercato nero sotterraneo.
«Dobbiamo scendere nei sotterranei adesso» annunciò Oliver, che ricordava il numero delle avenue senza neanche doverle contare durante la marcia.
«Non passeremo per la metro?» chiese la ragazza.
Oliver la fulminò con lo sguardo, il resto della banda tacque come dopo averla sentita pronunciare la più oscena delle profanità.
«Nessuno passa per la metro» sibilò uno dei ragazzi.
«Passeremo per le fogne, ma se vuoi puoi fare una deviazione» fece, quasi volesse minacciarla.
La mora percepì il tono della conversazione e fece un passo indietro «Ok, volevo solo accertarmene...» mormorò.
«Chi sei?» chiese Oliver.
La ragazza non rispose, ma serrò le labbra di fronte al ragazzo che aveva ormai lasciato il sospetto prendere il sopravvento.
«Dici di essere un’Allenatrice e di avere dei Pokémon che combattono, ma chiedi comunque di essere accompagnata. Sembra che conosci le regole della città... e poi parli della metro...».
Lei tentò ugualmente «secondo alcune voci...»
«Oliver è sceso nella metro, era con due compagni» disse uno dei ragazzi «è tornato da solo e non ha mai raccontato cosa fosse successo» continuò.
«Tu ci stai nascondendo qualcosa» aggiunse il leader.
La ragazza guardò il terreno. I ragazzi la videro vacillare per la prima volta.
«Chi sei?» ripeté Oliver.
«Ascoltatemi, mi dispiace, ho chiesto di essere accompagnata perché avevo intenzione di chiedere il vostro aiuto» fece lei, rialzando i suoi occhi dalle iridi scintillanti «mi chiamo Platinum Berlitz, vengo da Sinnoh e sono una Dexholder».

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