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Against Me (an Unravel Me story): Chapter 4

Against Me        
   Quando tutto cade.


Kalos, 19 giugno 20X1


Yvonne era atterrata all’aeroporto di Luminopoli che era quasi l’alba.
Meglio, pensò. Aveva dormito per quasi tutta la tratta, stendendo le gambe e allontanando quell’insensata voglia di bere Champagne. Non che ne fosse un’assidua bevitrice, ma ad averlo davanti per dodici ore le era venuta voglia di un flûte. Aveva quindi deciso di gettare le sue attenzioni sulle tartine al caviale, la sera, mentre al mattino sulla confettura di pesche che la compagnia aerea, nella prima classe, offriva a tutti quelli che avevano la possibilità di permettersela.
Il volo non era gremito di persone, perlopiù uomini d’affari, e qualche vera celebrità seduta a qualche finta celebrità. La differenza, credeva Yvonne, stava nel fatto che le finte celebrità parlassero troppo con tutti. Non che promuovesse quell’atteggiamento rigido e inarrivabile, ma era seduta da dodici ore su di una poltroncina che, seppur comodissima, aveva finito per inglobare lei e il suo bambino, e non aveva voglia di fraternizzare con nessuno che non avesse una soluzione per il dolore alle caviglie che stava patendo. Aveva voglia di uscire a prendere una boccata d’aria, ma quando vedeva l’oceano dal finestrino alla sua sinistra, tornava coi piedi per terra e si ricordava che era una donna adulta, una professionista e soprattutto che vacillava sull’orlo di una crisi depressiva.
Carezzava il ventre rigonfio, sotto il morbido maglioncino di filo intrecciato, nero, e di tanto in tanto sentiva scalciare quella meraviglia che stava incubando. Succedeva quasi sempre qualche ora dopo pranzo, e c’erano volte che premeva così tanto con quelle piccole gambe che s’intravedeva sulla pancia della donna l’orma del suo piedino.
E la cosa, contemporaneamente, la riempiva di tristezza e gioia.
Perché tutto sommato amava l’idea di trasportare una vita, quella vita, ovunque andasse, e donargli la sua forza, e nutrirla, e proteggerla. Ma, profeticamente, sapeva che non appena avesse stretto quel miracolo tra le braccia sarebbe stata male.
Male, male, male, male.
Perché quel miracolo avrebbe avuto solo una madre, e nessun padre accanto.
Aveva intravisto la terraferma qualche minuto dopo essersi svegliata, che il sole era ancora immerso per metà nell’Atlantico, e si chiedeva come fare per trovare quel singolo uomo che pareva non esistere più, che aveva fatto in modo di sparire e di non comparire più davanti a nessuno. Ruby Normanson non era più un uomo, era un ricordo, un’idea, un cellulare che squillava a vuoto.
Il padre di quel bambino.
O bambina.
Rapidamente scese, e non dovette neppure attendere molto al nastro, per recuperare il bagaglio. Qualcuno aveva scattato qualche fotografia di nascosto, dato che ormai era la protagonista su tutte le riviste scandalistiche, da quando il suo pancione entrava nei locali prima di lei.
Aveva rapidamente lasciato scattare qualche selfie a un paio di ragazze, che si erano avvicinate un po’ troppo a lei, e che si erano allontanate urlando merci, merci, merci, felici ed esaltate per aver ottenuto uno scatto con la top model del momento. Salì immediatamente sul taxi, quando pensò che avrebbe potuto approfittare di quella fama, per avvicinarsi a qualcuno di più famoso, di più influente. Magari cantare, recitare, vivere una vita fatta di salotti tv e ritocchini di bellezza, ma non era quello che voleva.
Yvonne chiedeva alla vita soltanto una cosa, da ormai sei mesi, e quella pareva essersi voltata dall’altra parte, bambina capricciosa, con le dita a chiudersi le orecchie, per non sentirla.
Le fece un po’ strano che i taxi lì non fossero gialli, come le Yellow Cab di cui abusava dove viveva, ma aveva così tanta fretta di allontanarsi da Luminopoli che non ci diede troppo peso. Quindi sbatté la porta e si ritrovò a pensare a tutte le volte che aveva camminato su quelle strade col sorriso sulle labbra, e lo stupore di vedere cose che nel piccolo buco di mondo dov’era nata non esistevano.
Come i marciapiedi più lunghi di sei metri, o la segnaletica stradale. Borgo Bozzetto non era altro che un agglomerato di case ordinatamente sistemata in una griglia di fiori e prati, attorno ai boschi e alle montagne, tagliata in due da un decumano in terra battuta, con le persone che vi vivevano che rasentavano la perfezione della bontà umana. E a Yvonne la cosa dava un po’ fastidio, perché anche lì, poggiata con la fronte sul finestrino, mentre si dirigevano verso la stazione ferroviaria, non riusciva a credere all’esistenza di quegli esseri mitologici, con gli artigli ritratti e il sorriso sempreverde sul volto, ricchi di buoni propositi, di buone azioni, di buone parole nei confronti di chiunque. Non riusciva a credere alla sempiterna bontà di quella gente, sempre felice, sempre contenta, sempre lì, a salutare a ogni incrocio, a raccogliere margherite e primule e rose e a offrirle ai passanti e a piangere solo quando i loro figli abbandonavano casa per un lavoro più gratificante nelle città più grandi che c’erano a nord. Il taxi voltò a destra, mentre immaginava il signor Molière, il suo vicino di casa quando viveva con sua madre, che urlava a sua moglie e imprecava con tutto il fiato che aveva in corpo perché l’aveva trovata a letto col fruttivendolo.
La cosa chiaramente non era mai successa, guai anche solo a pensarlo, sarebbe stato uno scandalo. Il sindaco di Borgo Bozzetto sarebbe venuto coi corpi speciali per arrestare la signora Molière e il fruttivendolo, e poi addio alle mele appena colte e alle marmellate, il figlio dell’uomo che le vendeva faceva il ragioniere da sette anni proprio lì a Luminopoli, e non si sarebbe mai sognato di abbandonare il ritmo frenetico della città e i suoi soldi per andare a vendere meravigliosi pomodori e teste d’aglio grandi quanto un pugno.
Lì tutto era bello. Lì tutto era perfetto. Lì niente era fuori posto.
- Tenga il resto... – fece, quando pagò il tassista, e trascinò il trolley nella stazione, dai grossi mosaici di marmo nei pavimenti. Quello su cui si poggiava era la rosa dei venti, e il suo sguardo si fermò sulla scritta MISTRAL, impreziosita da caratteri in ottone incastonati nella pietra nera. Non ci pensò più di tanto e avanzò, tirando la borsa e sentendo l’ennesimo calcio del bambino, che probabilmente, con tutto quello sballottamento, doveva essersi svegliato.
Alzò per un momento i grossi occhiali da sole, più utili a nascondere le occhiaie, figlie della mancanza di sonno, che a proteggere quei pozzi profondi come il mare a largo, e del colore della tempesta dalla luce del giorno. Si guardò attorno, cercava una biglietteria elettronica, ma aveva appurato che la fila per ogni macchinetta superava il minuto d’attesa, e lei era incinta e le dava fastidio che la facessero passare davanti a causa dello stato interessante, quindi si avvicinò allo sportello numero tre, mettendosi alle spalle di un uomo attempato, dalle basette canute e folte e dai lunghi peli che uscivano dal naso, grosso e storto. Riabbassò gli occhiali, mise una mano sulla pancia e sospirò, sperando che tutto quello stare in piedi per due avrebbe portato quanto meno a un posto in paradiso con vista panoramica; la schiena doleva, i piedi facevano compagnia e non sapeva se quella che provava in quel momento fosse fame o nausea.
Voleva stendersi e ridare forza al suo corpo, che la traversata dell’Atlantico pareva averla fatta a nuoto, e non seduta su comode poltroncine ergonomiche. Quando fu il suo turno si ritrovò davanti una giovane donna, dai lunghi capelli biondi e gli occhi grandi, di un meraviglioso color nocciola imbastardito da venature smeraldine. Il naso era arcuato ma non lungo, e sulla sua metà una manciata di lentiggini lo sporcavano. Sorrideva gioviale, nella sua divisa blu e bianca.
- Buongiorno, come posso aiutarla?
- Uno per Borgo Bozzetto... – rispose Yvonne, asettica al massimo, mentre vedeva l’altra inarcare le sopracciglia e spalancare la bocca.
- Oddio! Yvonne Gabena! Sei proprio tu! – ribatté di contro quella, che l’aveva riconosciuta in seconda battuta. Il suo viso si addolcì immediatamente, vedendo il grosso pancione premere contro il bordo del banco.
- … Già...
- Sapevo che ti avrei vista, prima o poi! Non molte celebrità fanno la fila per i biglietti, ma oh! Questo dev’essere proprio il mio giorno fortunato, vero?!
- Buon per te... Uno per Borgo Bozzetto...
- Sì, va bene... Non potresti farmi un autografo, mentre la macchina stampa il biglietto? – chiese quella, con la voce che scappava dalle sue grosse labbra e s’infrangeva sul vetro che le divideva.
Lasciò passare un foglio di carta e una penna, e la vide sospirare stanca.
- Certo… – rispose ancora la modella, guardando il nome scritto sulla targhetta dorata sul petto di quella. - Isabelle, uh? - domandò, guardandola annuire e guardarsi il cartellino.
- Sì.
La gente cominciò a lamentarsi, alle loro spalle, mentre l’ennesimo flash le abbagliò lo sguardo e si conficcò nella parte posteriore degli occhi stanchi, come schegge di vetro, sottili e acuminate.



A Isabelle, sperando che non mi faccia perdere il treno
Yvonne



Lasciò passare il foglietto e la penna sotto al vetro e sospirò nuovamente.
- Quant’è?
- Oh, cielo! Grazie mille! Quanto sono felice!
- Sì, va bene...
- Ecco i biglietti... – fece, dopo aver trovato traccia del suo contegno intimata dall’impazienza della fila, che s’ingrandiva secondo dopo secondo. – Sono ventidue.
- Sì. Tieni...
Yvonne lasciò scivolare due banconote da venti, prese il resto e lo gettò in borsa a casaccio, poi si voltò stanca e sconsolata. Si avvicinò rapida alle banchine, vedendo sul biglietto che il treno che l’avrebbe portata a casa la stava aspettando al binario ventotto, non proprio tra i primi, e nello stato interessante, coi piedi che parevano sul punto di non entrare più in nessun paio di scarpe in suo possesso e i conseguenti problemi posturali le parve quasi un miraggio vedere quella vecchia locomotiva del periodo prebellico, prima di prendere posto accanto all’ennesimo finestrino di quella giornata. Qualcun altro l’aveva riconosciuta ma lei non aveva più intenzione di firmare autografi né di fare foto con nessuno, era stremata e aveva deciso che avesse fame.
- Fanculo alla nausea…
Aprì la borsa, tirò fuori un sandwich al tacchino e lo divorò, poi sorso d’acqua e giù il calmante che il medico le aveva consigliato.

- Non farà male al bambino. È del tutto naturale e servirà a stabilizzare il tuo umore e ad aiutarti col sonno. Non sei pazza.
- Tsk… Non ci scommetta.

Ripensò a quando le aveva prese la prima volta, a come si sentiva intontita quando cominciavano a fare effetto e a quanto semplice fosse diventato addormentarsi. Stremata, portò entrambe le mani sulla pancia e cominciò a pensare a quando avrebbe incontrato sua madre, dopo tutti quegli anni passati lontana da casa. Certo, lei avrebbe chiesto del padre del bambino, e lì sarebbero cominciati i problemi. Le avrebbe mentito, forse, oppure le avrebbe detto la verità e si sarebbe sorbita una montagna di rimproveri, che avrebbero soltanto sottolineato il vaffanculo che aveva scritto in fronte, alimentando la voglia più sfrenata di aggrapparsi al primo aereo in volo e tornare a casa, l’altra casa, quella dove il vicino ti guardava male e a chiedere l’ora a qualcuno passavi per un rapinatore.
Le stazioni s’avvicendavano, e i nomi sui cartelli di ogni fermata erano ingialliti dal tempo, ma portavano a galla ricordi e dosi esagerate di malinconia non prescritta. Ripensò a quando quel viaggio in treno lo aveva fatto al contrario, mano nella mano con Shana, mentre sognavano il mondo delle luci puntate addosso e dei grandi nomi, delle riviste patinate e degli agenti sgomitanti.
Solo lei avrebbe avuto il coraggio di prendere quell’aereo, e di rovinarsi la vita con le cattive conoscenze, gli aghi in vena, la cocaina. Solo lei avrebbe preso al volo l’occasione per riprendere le redini di quel sogno, innamorarsi, rovinare tutto e tornare a casa camminando per due.
Erano stati anni impegnativi, quelli, febbricitanti e isterici.
Sospirò, poggiò le mani sulla pancia, delicata, e guardò il ragazzo seduto alla sua destra, nell’altra fila di sediolini. Ascoltava qualcosa di lento e cadenzato dalle cuffie bianche senza filo, appese alle orecchie piene di piercing. Aveva grossi stivaloni neri che premevano contro lo schienale che aveva davanti, vuoto, mentre su quello di fronte a Yvonne c’era una donna dal viso stanco, che nascondeva lo sguardo dietro l’hijab azzurro, probabilmente andava da qualche parte a sud di Kalos, forse per lavoro, forse tornava a casa dalla sua famiglia, poco le importava della sua storia.
Sbuffò composta, rimanendo seduta educatamente, nonostante desiderasse levare scarpe e reggiseno, nonostante volesse un letto comodo su cui abbandonarsi, un cuscino dietro la schiena e uno dietro la testa. Era stanca.
E affamata. Aveva uno snack in borsa, una barretta ai cereali, il piccolo lo avrebbe apprezzato. La prese, la scartò, la mangiò, poi pensò nuovamente a sua madre, che non sentiva dagli auguri di compleanno, il 2 febbraio, quando White aveva deciso di portarla a cena fuori assieme a Black, ed era già così incinta da non poter più bere. Mangiò però un’ottima fetta di torta, fece anche il bis. Sua madre la chiamò poco prima che White strisciasse la Centurion per pagare, e ancora lì, mesi dopo, seduta su quel treno, non riuscì a dimenticare quella conversazione.

- Bonjour; salut. Voeux.
- Oh… mamma, grazie per gli auguri…
- Parle français, je comprends mieux.
- Oui, désolé. merci pour les bons voeux.
- Oui ... quand allais-tu me dire que tu es enceinte?! Vous êtes dans tous les journaux!”.
- Oh… cazzo…
- Je sais ce que ça veut dire “cazzo”, Yvonne. Ne pensiez-vous pas que je devais savoir une telle chose?!
- Sì, hai ragione, hai ragione, è stato un periodo veramente complicato, con la gravidanza e tutto il resto…
- Merci pour la réponse en français.
- Excuse moi…
- Tu t'excuses toujours. Vous devez arrêter de vous mettre en position de le faire.
- D'accord, maman, je suis avec des amis et ce n'est pas le moment de discuter, bonsoir.
  
Avere a che fare con quella donna non era semplice: aveva un carattere difficile e schivo, e la sua prima impressione rimaneva immutabile nel tempo. Inoltre era una maniaca del controllo, lo era sempre stata, e la poca propensione di Yvonne nello starla a sentire aveva di fatto incrinato i rapporti, nonostante il sangue che scorreva nelle loro vene fosse lo stesso.
Nonostante fossero madre e figlia.
Fosse stato per Grace, Yvonne non avrebbe mai lasciato Borgo Bozzetto per andare oltreoceano, e sarebbe diventata una pilota di Formula 1 come lei. La cosa avrebbe esaltato chiunque. Fin da piccola era stata allenata a non avere paura della velocità; Grace sarebbe stata la donna più fiera del mondo e lei, enfant prodige delle gare in auto, sarebbe stata la seconda generazione di una famiglia di vincitrici sulle quattro ruote.
Ma la cosa non andò come la pilota sperava.
Erano diverse. Ripensava a sua madre e la vedeva con la tuta, il casco e l’auto da corsa, e quando provava a mettersi nei suoi panni il suo primo istinto la spingeva a levarseli, a piegarli ordinatamente e a riporli sulla mensola più in alto dell’armadio.
Il treno rallentò, il ragazzo si alzò, sbadigliò e scese alla stazione di Novartopoli. Mano a mano che si avvicinava a casa sua, gli alti palazzi facevano spazio alla natura e l’aria diventava sempre più pulita. Stanca, poi, chiuse gli occhi per un attimo, prima che un annuncio venisse urlato dagli interfoni.

“LE TRAIN POUR BOURG CROQUIS EST ARRIVÉ AU TERMINUS. LES VOYAGEURS SONT PRIÉS D’ATTENDRE LE TRAIN PAR LA LIGNE JAUNE ET DE LAISSER LES PASSAGERS DESCENDRE. MERCI.”

Aprì gli occhi, vide la donna che aveva di fronte già in piedi, accanto alla porta, quindi rapida la emulò e afferrò la maniglia del suo trolley, trascinandolo oltre le porte a soffietto del vagone, aiutata proprio da quella con l’hijab, che le sorrise e le disse di non preoccuparsi quando la ringraziò.
- Se non ci si aiuta tra di noi…
- Sì, ha ragione. Buona giornata.
- A te...
E prese a camminare. E una volta scesa a Borgo Bozzetto tutto sembrò immediatamente più candido, senza quella patina di fumo che era abituata ad avere costantemente davanti al volto. Anche la sua situazione, improvvisamente, divenne più tollerabile. Uscì dalla stazione, con gli occhi della gente puntati addosso perché tutti, tutti quanti, ricordavano il suo volto e sapevano chi fosse diventata, e calpestava quei ciottoli che le facevano traballare la valigia, ricordando con malinconia quando sugli stessi ci giocava, assieme ai suoi amici, rincorrendo i treni in partenza. Trovato era il più veloce, arrivava per primo e la staccava di poco, e qualche passo indietro c’erano Shana e infine Tierno, il più lento del gruppo. Xavier restava a guardarli da lontano, parlava poco spesso con loro, e quando usciva dal suo guscio stava prettamente con Yvonne, prima che lei partisse e andasse via.
Era un tipo strano, Xavier, e lo aveva appurato nei tre anni in cui i due furono fidanzati. La cosa sembrava seria, poi di punto in bianco si presentò davanti casa sua col volto un po’ più basso del solito e gli occhi bassi, dicendole che le voleva bene ma che non riusciva più a vivere in quel modo così intenso la loro relazione, e non per problemi che aveva causato lei, dato che lui era sempre stato un po’ più triste del normale, per via della sua infanzia.
Storia dura, forse incomprensibile ai più, in cui una madre muore e un padre decide di alzare un muro col mondo, figlio compreso, e di buttare la testa nel lavoro, dimenticando di riprenderla e avvicinarla al cuore del piccolo, per sentirne in battiti.
Strani meccanismi di difesa, pensava Yvonne, mentre usciva dal cortile della stazione. Il sole le baciò il viso. La creatura scalciò, lei sobbalzò poi salì sul marciapiede e vide il vecchio signor Guillaume, ancor più vecchio di quando lo aveva lasciato, che stringeva una vecchia scopa di saggina e spazzava davanti alla sua farmacia. Sua moglie Amelie, anziana come lui, innaffiava le lavande che teneva nelle fioriere davanti alla vetrina e quando Yvonne passò loro accanto entrambi alzarono lo sguardo. Poi, dopo un secondo di perplessità speso nel chiedersi per quale motivo una donna così bella stesse camminando per le loro strade, ricordarono la luce che aveva negli occhi.
- Sei la figlia di Grace? – domandò la signora.
- Yvonne! – ribatté suo marito, con lo sguardo ceruleo forse un po’ più spento, rispetto a quando era partita. – Mi ricordo di te! Sei andata lontano, eh?
La donna si limitò ad annuire, sorridendo e alzando gli occhiali sulla testa. Tante rughe si erano accumulate sul suo volto ossuto, ma i baffi, molto folti, erano rimasti quelli di un tempo.
- Ti ho vista sul giornale – disse invece sua moglie, con i capelli di quella strana tonalità di bordeaux, freschi di permanente. – Fai l’indossatrice?
- No, sono una modella. C’è una leggera differenza e… ma lasci stare.
Quella annuì, spostando poi il viso sul ventre rigonfio, quindi osservò la valigia.
- Che pancione… Il papà dov’è?
Yvonne sentì rumori di vetri infranti nella sua testa, mentre diventava impellente la necessità di stendersi.
- Lavora. Ci raggiungerà appena possibile. Ora, se permettete, scusatemi: queste scarpe mi stanno uccidendo – concluse. Si allontanò rapida, guardando la grande cassetta della posta rossa alla sua sinistra, che guardava l’altra parte della strada, dove c’era l’accogliente Petite Patisserie di Isidore Gadot, il ragazzo che aveva frequentato tutte le scuole con lei. Ricordava che prima di mettere la testa a posto aveva imbrattato il muro della chiesetta che c’era poco prima di casa sua con delle bombolette nere. Ora serviva i croissant migliori di tutto il paese.
Ricordò quella volta quando, sulle panchine del parchetto accanto al bosco, Isidore andò a infastidire Xavier, che leggeva tranquillo il suo fumetto di Spiderman; gli tirò delle pietre sulle scarpe e poi prese a colpirlo col Super Tele giallo, fino a quando Xavier decise di alzarsi in piedi.

- Vuoi smetterla di rompere i coglioni?
- Oh, il muto allora parla… Credevo che saresti corso da mammina…

Yvonne non ricordava cosa stesse facendo in quel momento, sapeva soltanto che qualunque cosa fosse stata smise di farla e corse in loro direzione, tirando un forte schiaffo a Isidore, che si voltò furibondo e umiliato, perché colpito da una ragazza a cui erano appena spuntate le tette. Si permise solo di sollevare il braccio, prima che Xavier lo spintonasse e cominciasse a prenderlo a pugni.
Più per quello che voleva fare a Yvonne che per quello che aveva detto di sua madre.
Classico di Xavier; quelle cose gli scivolavano addosso.
Si chiese come stesse, cosa stesse facendo in quel periodo, come se la passasse. E anche gli altri, Tierno e Trovato, e ovviamente Shana, la sua migliore amica di un tempo.
La pensò, l’ultima volta che l’aveva sentita lei non era ancora apparsa su Vogue, e non era successo molto tempo dopo aver cominciato a lavorare come modella, e fu soltanto uno scambio di messaggi. Poi Yvonne aveva perso qualche telefonata, aveva perso il cellulare e infine aveva perso Ruby, prima di perdere definitivamente ogni ponte con la vecchia vita. Avrebbe dovuto recuperare i contatti, ma era gente alla mano e avrebbe ricevuto comprensione, ne era sicura.
Arrivò finalmente nella piazza, con la sua grande fontana di marmo bianco, a raffigurare una suonatrice d’arpa dallo sguardo angelicato. Tutt’intorno vi erano le panchine e le fioriere, sempre piene di viole e rose e lavande e lillà. L’attraversò rapida, sentì qualcuno parlare, la riconobbero, qualcun altro scattò anche qualche fotografia ma lei non se ne curò e proseguì, e rapidamente entrò nel suo quartiere, con la linea di case sulla destra e il bosco verde sulla sinistra. Non appena calpestò quell’asfalto, così ruvido e consumato, un senso di malinconia la travolse.
Sospirò, era sicura di aver avuto una perdita di colostro. Avrebbe lo stesso dovuto cambiarsi, lavarsi, mettere qualcosa di pulito addosso, mangiare con voracità e stendersi.
E poi avrebbe litigato con sua madre, per uno dei mille motivi che quella avrebbe trovato.
Intanto però rimaneva col collo fisso a guardare quelle villette a schiera, tutte attaccate l’una all’altra, un unico tetto a spiovente dalle tegole rosse di terracotta, un unico muro di cinta esterno, grigio, di pietre e mattoni vecchi quanto il tempo, interrotto ogni dieci metri da cancelletti di ferro battuto. Il primo, quello del Signor Dubois, era nero, alto, un po’ arrugginito verso l’alto, dove tre spuntoni partivano e cercavano di toccare quel cielo limpido.
Ricordava Alphonse Dubois, Yvonne, perché era rimasto sostanzialmente il suo desiderio erotico per anni. Non lo aveva mai ammesso a nessuno, ma quel professore, che tutte le mattine condivideva con lei il treno per Novartopoli, accendeva in lei la fiamma della passione. Era un bell’uomo, lo ricordava, dai capelli castani, sempre ben pettinati, e gli occhi verdi nascosti dietro un elegante paio di Quay dalla montatura in alluminio. Era alto, snello, ogni mattina lei si svegliava e lui rientrava in casa dopo la sua sessione di jogging.
Ma era piccola, lui non la vedeva nemmeno. Si chiedeva se si fosse mai accorto di lei, sulle riviste o in tv. Si chiedeva se poi si fosse ricordato di lei.
Sospirò, andò oltre, casa di sua madre era la seconda. Le siepi, alte e rigogliose, superavano il profilo della cinta muraria e finivano per piegarsi al di fuori della proprietà. Il cancelletto era stato ricoperto interamente da edera verde e vivida, pianta a cui sua madre teneva moltissimo.
Sì, perché se nulla era cambiato in quegli anni, sua madre voleva che il suo giardino fosse un ambiente perfetto per il suo rilassamento. Ormai era aveva superato la cinquantina da un paio di paia d’anni, aveva perso in parte la grinta che la spingeva a premere l’acceleratore della sua macchina da corsa anche quando non avrebbe dovuto, vedendo la ruota posteriore sollevarsi sulla chicane e sorpassare chi aveva davanti, che aveva commesso l’errore di non stringere troppo e proteggere l’interno della curva.
Grace era una donna straordinaria, incredibilmente difficile. Si chiedeva spesso, Yvonne, perché sua madre non avesse mai voluto un uomo accanto a lei, ma col tempo aveva capito che la risposta era che lei non voleva dipendere da nessuno, né voleva mettersi in casa qualcuno che avrebbe potuto farla deragliare dalla sua disciplina malata e dalle sue urla scapestrate quando qualcosa non le piaceva. Non avrebbe mai potuto condividere le idee di qualcun altro senza morire con la collera che le prendeva piede in corpo. Ricordava la lite che le due avevano avuto anni prima, quando lei aveva deciso di prendere treni e aerei per andare via.

- Non ho capito, Yvonne.
- Tra una settimana.
- Una settimana?
- Sì. Tra una settimana. Parto.
- Ah, bene. E non credevi che dovessi essere informata di questa cosa?
- Ti sto informando adesso, mamma...
- Una settimana prima? Tu hai deciso di cambiare totalmente la tua vita, di partire a miliardi di chilometri da me e me lo dici una settimana prima?
- Sapevo che avresti reagito così...
- E come cazzo avrei dovuto reagire?!
- Non avrei dovuto dirti nulla, Shana aveva ragione...
- Ovviamente! Chi altro poteva stare dietro queste stronzate se non quella Shana, la vagabonda! Sempre per strada! Se sua madre ha deciso di vedere sua figlia morta non è un problema mio ma io non ti permetterò di buttare via tutti i piani che abbiamo fatto per te!
-  Io non ho fatto nessun piano! TU hai fatto i piani per noi e io non sono neppure stata interpellata!
- Questo perché è evidente che prendi decisioni di merda! Dove hai la testa?! Se non pensassi io al tuo futuro probabilmente finiresti per farti ammazzare da qualche tossico, nel retro di un palco di un concerto di musica punk!
- Oh, fanculo, mamma!
- Yvonne Gabena! Come ti permetti di parlarmi in questo modo?!

Poi aveva deciso di andare in camera sua, chiudere le valigie e andare via. Era rimasta da Shana fino alla partenza del treno per Luminopoli, poi sua madre l’aveva contattata e l’aveva pregata di tornare a casa, facendo finta che nulla di tutto quello che era successo fosse accaduto, ma Yvonne aveva risposto con un secco no. L’ultima volta che aveva visto sua madre, prima di uno sporadico viaggio da parte di quella l’anno precedente per le vacanze estive, fu alla stazione dei treni, con quella visibilmente scossa che cercava con lo sguardo il volto di sua figlia oltre i vetri dei finestrini.
E in quel momento, nel presente, Yvonne stringeva la maniglia del cancelletto che da piccola le aveva spaccato la testa, quattro punti di sutura e tutti a casa, e guardava oltre l’edera, cercando di capire se quello fosse il momento giusto per fare il passo successivo, e provare a dare una nonna alla creatura che trascinava assieme a quel trolley.
Sospirò, abbassò la maniglia, il cancelletto cigolò sinistro e tutta la sua infanzia gli si avviluppò con forza addosso. Abbassò lo sguardo, il vialetto di ciottoli era rimasto esattamente lo stesso, come anche la posizione delle due fioriere accanto alla porta d’ingresso. Attraversò quella strada lunga e stretta che tagliava il prato verde in due lentamente, vedendo se stessa mille e mille volte che la percorreva da bambina e poi da ragazza, con Xavier accanto, con gli amici che l’aspettavano fuori, col pallone, le figurine, le trottole, le canzoni, la bellezza dell’infanzia chiusa in uno zainetto con succo di frutta e pane fresco con confettura di fragole fresche. E quando il sole si abbassava, colorando di rosa, arancione e viola il cielo sulle teste degli alberi che c’erano tutt’intorno, la voce di sua madre la richiamava all’ovile, e lei salutava e tornava, e la trovava seduta sul gradino che in quel momento stava calpestando, col viso stanco e preoccupato.
Batté le palpebre, davanti alla porta blindata che aveva davanti, chiusa, sigillata dall’interno, dove tutto le diceva che non si era comportata bene con sua madre, che aveva sbagliato ogni mossa con lei, dal momento in cui aveva deciso di diventare donna e indipendente.
Alzò la mano, l’appoggiò al pulsante del campanello e indugiò un secondo di troppo prima di premerlo, ma non ce ne fu il bisogno, perché la porta si spalancò subito dopo. E Grace la guardò, immobile, con lo sguardo inizialmente confuso, poi sorpreso, poi sconvolto, poi leggermente commosso. Il suo viso però era incrinato dalla rabbia e dall’orgoglio.
La donna era la versione di Yvonne coi capelli castani, imbastarditi da qualche filo d’argento, acconciati in un carré molto più pratico, ventiquattro anni più grande e col seno più pesante. Ed era leggermente più bassa. Per il resto, le due erano totalmente identiche, con gli occhi azzurri che si tuffavano nel grigio, le labbra carnose, il naso dritto e l’ovale perfettamente simmetrico, su un fisico snello e longilineo. Il volto di Grace era segnato da rughe appena abbozzate sotto agli occhi e sulla fronte ma, nonostante quello, le due sarebbero potute essere confuse tranquillamente per sorelle.
- Mamma… - sospirò Yvonne, senza riuscire a trattenere le lacrime, che caddero silenziose su entrambe le guance. E a sentire quella parola, Grace non riuscì più a mantenere eretto quel muro che aveva posto inizialmente, sorridendo bonariamente e chiudendo gli occhi. Prese il manico del trolley dalle mani e lo tirò dentro, prima di avvicinarsi all’altra e stringerla delicatamente, facendo attenzione a non comprimerle la pancia.
- Amore… Stai per esplodere…
Yvonne rise felice, continuando a piangere, emozionata e compiaciuta da quella reazione che onestamente non si aspettava, e affondò il viso nel collo della donna, venendo sopraffatta da quel profumo che ammetteva esserle mancato fin troppo, durante quegli anni. Fu un attimo, si rivide su quell’aereo, impaurita per dodici ore, temendo che quell’affare cadesse in mezzo all’oceano, e poi anche dopo quando aveva deciso di spendere i suoi pochi risparmi per affittare una stanza nella comune dove conobbe la persona peggiore della sua vita. Aveva bucato le vene, aveva raggiunto l’anoressia, aveva sentito bruciare gli occhi per il fumo che aveva davanti, e il lavoro per la dose, poi il cartello sul ring, poi l’aiuto inaspettato, poi la fama, il successo, l’amore.
La delusione.
E sua madre era sempre stata lì, ad aprirsi una ferita con un coltello incandescente per la paura e la disperazione che provava. E in quel momento, in quel preciso istante, lei era tornata per due alla base, a riprendere un po’ di quello che aveva perso per strada, a caricare un le batterie, a pulire i polmoni.
A parlare la sua lingua.
- Come stai, mamma?
Grace l’allontanò giusto per un secondo, per guardare il suo volto, e poi vide il sorriso esplodere sul suo viso.
- Io sto bene. Ora meglio. E tu?
- Io sono incinta – rise ancora quella, mentre le lacrime continuavano a scendere copiose. – E mi fanno male i piedi…
- Entra dentro, vieni a riposare…
E quando lo fece fu come non essere mai andata via. L’ingresso era rimasto praticamente lo stesso, col divano di pelle bianca a pochi metri dalla porta, la poltrona alla sua sinistra e la grande televisione davanti alla scalinata che portava alle stanze. Oltre, prima dell’arco in pietra viva che portava alla cucina, c’era il caminetto di mattoni rossi. Ricordava che da piccola amava tornare a casa da scuola e rimanere ipnotizzata dal fuoco del camino, seduta sulla poltrona, a fissare la danza sinuosa delle fiamme, prima che sua madre mettesse in tavola pane caldo e qualcosa di buono.
- Che aspetti? Siediti – riprese Grace, voltandosi e andando in cucina. – Oppure vai direttamente a riposarti, ora salgo su e ti do delle lenzuola fresche, ti rifaccio il letto e poi esco, vado a comprare il pesce per la bouillabaisse, che non è propriamente un piatto estivo ma so che ti piace tanto. A te serve qualcosa? – domandò poi, con la voce che attraversava le pareti ricoperte dagli stessi parati beige che un mattino d’autunno, quando aveva quattro anni, aveva deciso d’imbrattare col rossetto. Lei sorrise, ripensandoci, e ricordò la strigliata che aveva dovuto subirsi subito dopo.
- No – rispose poi, col sorriso sul volto. – No, va benissimo così. E non è necessario che tu esca, ti aiuterò a cucinare qualsiasi cosa tu abbia in dispensa, più tardi…
Si sentì il rumore delle ante che sbattevano, subito dopo quello del ghiaccio che batteva sul vetro e, pochi secondi dopo, Grace riapparve, con un grosso bicchiere d’acqua fredda.
- Nossignore! Mia figlia torna dopo un sacco di tempo a casa, con creatura al seguito… Come minimo le farò passare qualche sfizio! Non bere velocemente e non perdiamo altro tempo.
Yvonne afferrò il bicchiere e bevve piccoli sorsi, che si fecero strada nel corpo bollente, prima di seguire con lo sguardo sua madre, già al secondo gradino con la valigia tra le mani, che faceva non poca fatica a salire al piano superiore. Salì facendo attenzione, guardando le sei foto incorniciate e perfettamente dritte sul muro accanto a lei, quello che manteneva il corrimano di ferro battuto, che probabilmente era stato riverniciato da poco, per via di quella patina lisciastra che, quando era andata via non ricordava. Raggiunse il primo piano, il corridoio le si mostrò gioviale, con tutta la luce che la grossa finestra del balconcino riusciva a buttare dentro, generosa. Guardò a destra, la stanza di sua madre era rimasta pressoché uguale, mentre a sinistra c’era il bagno, il cui ingresso era chiuso, e subito oltre il piccolo ripostiglio, celato anch’esso da una porta di legno di mogano, scura e solida, che quando sbatteva spinta dal vento pareva riuscisse a smontare da sola i cardini su cui poggiava e a rovesciarsi nella camera che aveva di fronte, ovvero la sua.
Rapida, Grace aveva già steso il coprimaterasso e stava rimboccando le lenzuola di cotone bianco.
- Stai ferma – le ordinò, piegata e di spalle. Yvonne guardò la sua valigia, già aperta sulla scrivania, anch’essa in legno, come d’altronde il grosso armadio sulla parete accanto, sulle cui porte erano stati montati tre alti specchi, le tre mensole che mantenevano fotografie e libri e i telai delle due finestre che stavano ai lati del letto, una a destra e una a sinistra.
- Metto le federe – disse, scalzando le Skechers e poggiando i piedi stanchi e gonfi sul fresco delle mattonelle candide. Mise poi il bicchiere d’acqua sul piccolo comodino destro.
- Sono sulla testiera del letto – ribatté Grace, girando dall’altra parte e continuando a infilare i lembi del lenzuolo sotto al materasso. Vide Yvonne muoversi pesante verso i cuscini, sbatterli e poi poggiarli uno alla volta sul grosso pancione, per aiutarsi nel tentativo d’infilare la fodera a quel guanciale che ancora profumava di lei.
Un po’ come tutta quella camera. Era bello e rassicurante.
Quando ebbe finito, Grace aiutò la donna a svestirsi, le diede dei vestiti puliti e fece in modo che li indossasse subito, prima di abbandonarsi sullo stesso materasso che l’aveva cresciuta e l’aveva resa così bella.
- A che ora ti devo svegliare? – domandò quella, grattandosi il mento.
- Beh, ho bisogno di riposare, mamma. Sarebbe un problema se mi svegliassi per… diciamo, mezzogiorno?
- Va bene. Io finisco di fare alcune cose in casa e poi esco. Ho il cellulare sempre con me e qualsiasi cosa succeda puoi chiamarmi. Allerterò anche la zia Marie, di fronte, nel caso urla più che puoi e…
- Mamma. Voglio solo riposare.
- Hai bisogno di qualcosa? Lo dico per quando sarò in paese.
- Riposare. Chiudere gli occhi e dormire, bestiolina permettendo.
Grace poi annuì, sorridendo. Si avvicinò a lei e le baciò la fronte, poi chiuse le napoletane e le avvicinò il bicchiere d’acqua.
- Bevi un altro po’…
Yvonne ruotò gli occhi, stremata, l’accontentò e si lasciò cadere pesante sul materasso. La testa affondò tra i due guanciali profumati di pulito e, quando la porta della camera si chiuse, il buio che la rassicurava cominciò a cullarla, rapendola poco a poco, fino a quando le mani strette nei pugni persero forza e rimasero poggiate sulle lenzuola candide.

E sognò.
Sognò di passeggiare tra prati in fiori e lunghi fili d’erba profumata, pettinata a destra dal vento di ponente. Lo stesso spingeva nuvole morbide nel celo roseo del tramonto in una giornata tutto sommato fresca, nonostante percepisse che il sole stesse abbandonando la volta, tirandosi dietro una coperta di stelle. Ma la luce era tanta, lei stava bene, e sentiva l’abito bianco che indossava svolazzare alle sue spalle. Aveva legato i capelli e aveva deciso, a piedi nudi, di virare a destra, nel prato, raggiungendo una piccola altura, sulla quale vi era costruito un piccolo pozzo in mattoni rossi. Una tovaglia a quadroni bianchi e blu era stata stesa per terra accanto a una cesta da cui spuntava una baguette fumante, e albicocche e pesche.
- Mamma! – l’aveva chiamata qualcuno, con una voce piccola e delicata. Yvonne si era voltata e aveva visto un bambino di poco più di tre anni, piccolo, dai capelli biondi e lunghi fin sulle spalle, raccolti in lunghi boccoli ricci, mossi dal vento. Lei sorrideva, felice, avvicinandosi a lui e inginocchiandosi nell’erba, per poi stringerlo tra le braccia.
Profumava di buono.
- Mamma! Sei arrivata!
Lei aveva risposto di sì, gli aveva baciato la fronte e si era specchiata nei suoi occhi, rossi come due rubini, incastonati nel volto diafano.
- Papà! – aveva urlato ancora, mentre il vento tiepido ancora baciava la loro pelle. – Papà! È tornata mamma!
Il piccolo si era poi voltato, divincolandosi dalla stretta e correndo in direzione di un uomo, alto, magro e con la camicia bianca aperta fino al quarto bottone. Sorrideva, ed era bellissimo.
Si era avvicinato a lei, aveva messo tra i suoi capelli una gerbera appena raccolta e le aveva sorriso di nuovo. Era più alto di lei di qualche centimetro.
E aveva dato il colore del fuoco agli occhi di quel bambino, e sulla fronte una vecchia cicatrice deturpava la pelle diafana. Proprio come Ruby.
Lei gli aveva sorriso, cingendogli il collo con entrambe le braccia, quindi si era alzata sulle punte e lo aveva baciato, proprio mentre il sole dava l’ultimo saluto a quel giorno meraviglioso.

*

- Yvonne...
- Mhm...
- Yvonne... Sveglia, Yvonne.

*

La modella sentì una mano calda accarezzarle il volto, prima che le palpebre si schiudessero leggermente, a mostrare quelle iridi grigie e preziose come perle.
- Yvonne.
Grace era seduta accanto a lei, affondava le mani nelle lenzuola sgualcite e pareva non riuscire a smettere di sorridere: avere sua figlia di nuovo a casa le pareva uno scenario così remoto da renderle impossibile abituarsi alla vista di quella versione della sua bambina, diventata prima una donna meravigliosa, poi a sua volta una madre.
- Mamma... che succede?
- Mi avevi detto di svegliarti a ora di pranzo, ed è ora di pranzo.
Yvonne sbadigliò profondamente, stringendo gli occhi e i pugni e allungando le braccia in alto, stiracchiando ogni suo muscolo.
- Ho fame... Andiamo a cucinare...
- La zuppa è già pronta, tesoro. Devi solamente scendere giù. Ah, ti ho comprato un paio di scarpe di un numero più grande. Dovrebbero essere più comode...
Yvonne sorrise, annuendo, e poi sua madre le porse un paio di ciabatte morbide, in gomma.
- Stai esagerando – fece, prendendole e lasciandole cadere per terra. Si fece aiutare a mettersi seduta, le calzò e si mise in piedi.
- Non dirmi che non sei abituata ad avere l’attenzione di tutti puntata addosso, figlia mia…
- Non è questo… - fece, muovendo qualche passo stentato, con le mani puntellate dietro la schiena, dolorante. – Devo fare pipì…
Grace ridacchiò e annuì.
- Ce la fai a scendere da sola?
- Sono arrivata qui dall’altra parte del mondo, mamma… - rispose, uscendo dalla stanza. – Sarò capace di scendere dodici gradini, tranquilla…
- Certo – annuì ancora, sistemando coperte e cuscini e scendendo al piano inferiore, puntando gli occhi oltre la finestra del salone, che dava al giardino, e oltre ancora, sulla strada, dove chiunque passasse gettava l’occhio all’interno, per cercare di vedere la famosa piccola Yvonne, diventata una grande superstar. Si fermò al centro del tappeto blu, quello morbido che adorava calpestare a piedi scalzi, e portò le mani ai fianchi.
Doveva mentalizzare quel concetto, farlo suo e smettere di trattare quella donna come la ragazzina che era stata, piena di sogni inespressi, esperienze nella lista delle cose da fare e rifiuto costante verso ciò che le diceva. Yvonne era cresciuta, si era tracciata una strada del tutto differente dalla sua, perpendicolare solo in certi punti, come un sasso lanciato sulla superficie del lago che incontrava l’acqua solo quando vi rimbalzava, ma che avanzava all’infinito, e Grace era il lago e, anche se non l’avrebbe mai ammesso a se stessa, non era riuscita a lasciarla andare.
E averla lì era magico, come una macchina del tempo che la riportava venticinque anni indietro.
La tavola era apparecchiata e le mille domande che erano nate nella sua testa forse avrebbero trovato finalmente risposta. Quando sentì la più giovane avvicendarsi per le scale prese il grosso mestolo di rame e mise sulla tovaglia il pentolone con la bouillabaisse, tolse il coperchio e tutta la cucina fu investita da caldo vapore e profumo di verdure e pesce fresco.
Yvonne entrò e si sedette, contenta.
- Che profumo meraviglioso…
- Sentirai che sapore...
Mise i piatti davanti a loro e si sedette, l’altra fece lo stesso e, felice, affondo il cucchiaio nel brodetto, avvicinandolo poi alla bocca e gustandolo in maniera quasi plateale, accompagnando la cosa con un verso e chiudendo gli occhi.
- È deliziosa, mamma…
- Vero? Gli scampi erano vivi, stamattina, quando Romain me li ha venduti. Si muovevano ancora…
- Ugh… che schifo… - ribatté l’altra.
- Beh, ti tocca fare poco la schizzinosa, dato che tra poco diventerai madre. A proposito… quando diventerò nonna?
Yvonne, annuì, spostò il ciuffo dal volto e mise un altro cucchiaio di zuppa in bocca. Alzò la mano, aspettando di gustare il boccone e buttarlo giù. Poi rispose.
- Da un momento all’altro. Siamo proprio agli sgoccioli. Volevo che mio figlio nascesse dove sono nata io, e crescesse per i primi tempi qui. L’aria è più pulita, esistono spazi verdi eh, oh, la gente è amichevole…
Grace annuì, come se avesse sentito la cosa più ovvia del mondo.
- Austropoli è una grande città, è normale che qui le cose siano più semplici. E poi?
- E poi, quando sarò pronta a ripartire prenderò un aereo e torneremo lì. Magari potresti seguirci, almeno per i primi tempi… Ho comunque il lavoro, tra i set e le sfilate, e non sarebbe un problema trovare una bambinaia o qualcos’altro, per quei momenti specifici in cui non ci sarei, ma, ecco, se penso a una madre penso a te, non alla madre di qualcun altro…
- Non ti permetterò di mettere il mio nipotino tra le mani di una sconosciuta, tesoro – ribatté tranquilla l’altra, mangiando un pezzo di pesce San Pietro e abbassando il capo, spostando col cucchiaio uno scampo, che avrebbe mangiato per ultimo. – In ogni caso preferirei che per i primi tempi il bambino stesse qui.
- Mamma… non cominciamo.
Grace alzò le mani al cielo.
- Sì, hai ragione, è tuo figlio, dopotutto. Maschietto? – chiese poi.
Yvonne fece spallucce.
- Non lo so. Non l’ho voluto sapere.
- E come faremo a organizzare la cameretta?
L’altra ridacchiò. – Basterà evitare rosa e azzurro, tra i colori da scegliere per tutine e simili. Abbiamo ancora parecchio tempo per capire se porterà assorbenti o sospensori…
- Oh. Va bene, tesoro. Del resto è tuo figlio. O figlia. Dimmi cosa posso fare.
- Ospitami per un po’, fino a quando questo vitello non uscirà da qui dentro. Ovviamente contribuirò con le spese e tutto il resto, e già nel pomeriggio vorrei andare a Luminopoli per fare scorta di pannolini, salviettine e altra roba.
- Ho ancora il tuo fasciatoio, in cantina. E la culla. E il port enfant.
- E il carrozzino? E tutto il resto?
Grace alzò gli occhi al cielo, sorridendo silenziosa.
- Cosa? – domandò l’altra.
- Nulla. Stanno cominciando le tue ansie da mamma. Non finiranno più.
- Oh, ti sbagli. Sono cominciate nove mesi fa ma… - bevve poi un bicchiere d’acqua e continuò. – Ma mi sono resa conto che fosse sempre con me solo dopo il primo calcetto.
A Grace invece l’acqua non bastava, e riempì un calice di vino rosso, guardando male sua figlia. – Tu no. Sai quante volte avrai esagerato…
- Neppure una, cara mamma! – esclamò. – Ti sembrerà strano, ma sono diventata una persona responsabile…
- Oh, spero che sia così – ridacchiò l’altra.
- Ci puoi giurare! Ho fatto i miei errori, ma ho anche saputo raccogliere le mie opportunità.
Grace rimase ferma a fissarla.
- Hai ragione. Mi chiedo però dove sia l’uomo che ti ha lasciato venire fin qui da sola senza neppure portarti la valigia.
E fu lì che il cuore di Yvonne saltò un battito. Abbassò la testa, guardando il cibo e sentendo improvvisamente lo stomaco chiudersi.
- Beh. Questa situazione è un po’ problematica, a dire il vero…
- Tsk. Lo sapevo – ribatté Grace, facendo prolungatamente cenno di no con la testa e bevendo ancora. – Lo sapevo. Sei rimasta il solito casino.
E forse saranno stati gli ormoni impazziti, come anche il ricordo dei vecchi asti dissotterrati dopo anni di torpore, ma Yvonne decise di non lasciar passare inosservata quella frase.
- No, mamma. Sono meglio. Mio figlio nascerà sano e forte e sarò una madre giusta.
Grace inclinò leggermente la testa, poggiando delicatamente il cucchiaio sul fazzoletto di cotone bianco.
- Cosa stai cercando di dire? Io sono stata una madre fin troppo giusta, per i miei gusti. Mia madre, invece, non mi avrebbe mai permesso di prendermi tutte le libertà che ti sei presa tu, nella vita.
- Sì, ma è la mia vita! All’inizio ero convinta d’inseguire un sogno, quando sono andata via, ma ora non so se in realtà io sia semplicemente scappata di casa! – urlò Yvonne, spostando lo sguardo, turbata. - Non dovrei stare così… Del resto anche tu mi hai cresciuta senza un uomo accanto.
Grace era rimasta immobile, con le braccia lunghe sul tavolo, alla destra e alla sinistra della ciotola di zuppa di pesce fumante.
-  Proprio perché sei cresciuta senza un padre dovresti sapere bene cosa significhi l’assenza di una figura paterna, Yvonne.
La voce della donna sbatté con forza contro sua figlia, che strinse gli occhi e l’allontanò, per scacciarla via. Spostò gli occhi per un attimo verso destra, cercando di allontanare le lacrime e fissando le tendine beige della piccola finestre dietro ai fornelli di ghisa, sporchi per via del pranzo appena preparato. Grace la guardava immobile, ricevendo di contro un’ondata incandescente, carica del carattere polemico dell’altra.
- Secondo te non vorrei che mio figlio crescesse con suo padre?
Una lacrima tagliò di netto la guancia paonazza della donna, fermandosi sul lembo del labbro superiore. Il suo sguardo vagava confuso, evitava d’incontrare quello della più grande, che la fissava col volto contrito.
- Non lo so. – aveva risposto. – Io non so più niente di te. Immagina che colpo averti vista su Vogue e Cosmopolitan, dopo che non avevo più tue notizie da anni.
- Certo che voglio che mio figlio cresca con suo padre! – urlò rabbiosa, sbattendo entrambi i pugni sul tavolo. – Ma che razza di dubbi ti vengono! Io amo quell’uomo!
- E quell’uomo non ti ama? – domandò calma Grace, rimanendo sempre composta. Forse era quella posatezza a far imbestialire la figlia.
- Non lo so! Non ne ho idea! Non lo vedo da quando mi ha messo questo bambino in corpo!
- Cioè... – ridacchiò sua madre, alzandosi. – Tu mi stai dicendo che sei innamorata di un uomo che non ti vede neppure? Che non vuole prendersi la responsabilità di ciò che ha fatto?
- No! Non è così! Siamo stati assieme ed era tutto perfetto! E non sa che aspetto suo figlio!
- E cosa cazzo aspetti, a dirglielo?
- È sparito! È sparito nel nulla, non riesco più a rintracciarlo da nessuna parte! Non risponde al telefono, non è dai suoi genitori, non è tornato con la sua ex! Ha lasciato il lavoro! Come cazzo dovrei fare?! Potrebbe tranquillamente essere morto, per quel che so!
Ci fu poi un secondo di silenzio, in cui le lacrime d’Yvonne continuavano a scendere copiose, a deturpare quel volto perfetto, senza però scalfire la corazza di sua madre, con quello sguardo accusatorio che non aveva mai cessato di farla sentire sbagliata.
- Io non so che dirti, guarda. No, davvero, Yvonne. Sei... inqualificabile! – aveva esclamato Grace, col sorriso esterrefatto di chi non sapeva più cosa dire. – Io sono... sconvolta, dal modo in cui vivi certe cose!
- Come usciresti da questa merda, eh?! Dimmelo, ti prego! Illuminami, come hai sempre fatto! Dimmelo! E non dimenticarti di metterti quella maschera da saccente sul volto! Altrimenti non riuscirai a farmi sentire più sbagliata di quello che sono!
- Yvonne! Dannazione, ma cosa dovrei dirti?! Brava! Ti sei fatta mettere incinta da uno sconosciuto e ora sei tornata a casa perché sei rimasta da sola?! Come dovrei reagire?!
E poi esplose, era troppo.
- Vaffanculo! A me serviva una guida! Non un fottuto sergente! I tuoi giudizi pieni di veleno te li puoi tenere per te! Perché diamine non riesci mai a dire la cosa giusta per farmi stare un po’ meglio?! Avevo solo bisogno della tua comprensione!
Si alzò, a fatica, e lasciò la cucina. Grace la vide salire al piano superiore e poi scendere di nuovo, qualche minuto dopo, con dei vestiti differenti e le stesse scarpe strette di quando era arrivata. Poi sbatté la porta, lasciandola lì, stanca, con la cucina da fare e una zuppa di pesce fin troppo calda per quel giugno.

Yvonne piangeva ancora, mentre per le strade di Borgo Bozzetto le persone rientravano in casa, pronte a pranzare. Il sole batteva, meno rovente di quello che pensava, mentre il suo viso cercava di ricomporre i pezzi di quel mosaico per tornare l’opera d’arte che era.
Uscì dal quartiere residenziale, con la fame sparita e la paura che questo avrebbe potuto portare problemi al bambino. Forse avrebbe dovuto voltarsi indietro e rientrare in casa ma non era pronta a subire di nuovo sua madre e quei rimproveri.
Non era più una ragazzina.
Aveva commesso un errore ma non era più una ragazzina.
Aveva amato quell’uomo fino a raggiungere la follia, aveva accolto il seme del loro amore ed era diventato un bambino, ma questo solo dopo aver preso delle pessime decisioni. Non era più una ragazzina, e comprendere di essere l’unica ad essersene accorta la faceva soffrire.
Era come urlare a squarciagola e non riuscire a emettere suono. La sfiancava la difficoltà di far capire qualcosa che era davanti ai suoi occhi tutti i giorni, una cosa così ovvia da non possedere definizione.
E mano a mano che camminava, che calpestava sampietrini e asfalto, ripensava alle parole che avrebbe dovuto dire a sua madre, alle risposte più che brillanti che avrebbero potuto spiazzarla.

“Io sono adulta, ora.”
“Io sono una donna.”
“Io sono cresciuta, nonostante la solitudine e le difficoltà.”
“Io ho creato quello che sono ora.”
“Io ti usata come rampa di lancio, ma se ora sono qui non è per litigare con te o per sentirmi rinfacciare gli errori che ho fatto quando tu non eri con me. Gli errori li commettiamo tutti.”

Era sua madre, e nonostante quella ruggine di superficie, sapeva che il suo amore per lei era solido come il ferro di cui era rivestito il suo spirito. Perché lo sapeva che quella donna, oltre a manifestare preoccupazione e tutto il resto di emozioni che una donna si trascinava appresso quando diventava una madre, non aveva alcun torto.
Yvonne si era resa conto per l’ennesima volta di aver fatto degli errori.
E quella reazione, forse smodata, nei confronti della madre che amava alla follia, non era altro che un modo per non ricordare a se stessa che lei non era la sola vittima delle sue pessime scelte.
Il volto di Ruby pareva essere indossato da tutti i passanti di Borgo Bozzetto, che attraversavano con calma le vie del paesino, e che la fissavano maleducatamente, perché l’avevano riconosciuta.
E poi sì fermò quando qualcuno le mise una mano sulla spalla.
Spalancò gli occhi, non voleva che qualcuno la vedesse col volto pieno di lacrime, in quel modo, ma quando si sentì chiamare da quella persona, quando riconobbe quella voce, non poté far altro che irrigidire ogni muscolo del corpo. Il cuore prese a battere, si voltò e vide il sorriso bonario di Xavier cominciare ad accendere un fuoco per riscaldare il gelo che si era fatto strada dentro di lei.
- Yvonne...
Sorrise, lei, quasi come se non fosse mai stata lontana da lì, con le lacrime che non accennavano a fermarsi, e quella che era una disperazione sostenuta divenne vero e proprio pianto di liberazione.
- Xav! – esclamò, affondando il volto nel collo dell’uomo e avvinghiandosi a lui.


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