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Frammenti - Supernova - 2 - Levyan

It implodes
 

Il rumore delle unghie di Astolfo che cozzavano contro il legno della scrivania era leggermente attutito dai fogli su cui aveva posato le mani. Simmetrico, seduto sulla sua poltrona, con la testa bassa e lo sguardo fisso ed entrambe le braccia protese sui documenti che attendevano solo una sua firma, faceva battere meccanicamente  le dita a ritmo creando una particolare melodia sui quattro quarti.
Inspirò. Sospirò.
Stroncante, la vita del direttore era stroncante. Ma non per la fatica, quanto per la monotonia. L’istituto in cui lavorava era enorme, il più grande e ricco della regione. I malati si rivolgevano tutti ai suoi medici e la gente con cui aveva a che fare, le pratiche che doveva effettuare, i procedimenti che doveva eseguire con la massima scrupolosità, erano sempre più.
La professoressa si stanca, ma non rischia mai di cadere addormentata durante una lezione, lei spiega, è sempre attiva; l’alunno anche si stanca, ma lui era costretto ad un impegno passivo e da un momento all’altro il suo orologio interno poteva costringerlo ad una pausa.
Ecco ciò che succedeva ad Astolfo, l’annichilimento del cervello.
Molti dicono che per distrarsi dalla propria fossilizzazione, bisogna trovare un passatempo, un hobby. Troppo facile per chi non ha nulla da fare dalla mattina alla sera. Purtroppo un direttore ha un lavoro noioso, ma un direttore di un così grande istituto di cura per malati mentali, ha tanto lavoro noioso.
Un “toc toc” proveniente dalla porta del suo ufficio raggiunse i suoi timpani come ambrosia per il palato. L’opportunità di distogliere lo sguardo da quei noiosi documenti senza avere il peso sulla coscienza di “non aver combinato un’emerita pantofola”.
“Prego!” esclamò entusiasta.
La dolce figura di Mirta, psicologa dell’istituto dai capelli castani che lavorava nell’ala est dell’ospedale, entrò nello studio con una cartella per le mani. Portava un maglioncino a collo alto di color violetto e una gonna nera che raggiungeva le ginocchia.
“Capo, altri documenti, il dipartimento della sanità vorrebbe che noi facessimo...”
L’attenzione di Astolfo era completamente altrove, e mentre la ragazza parlava lui era troppo occupato a scorrere lungo il suo corpo giovane e florido per capire una sola parola da lei pronunciata.
“Sicuramente signorina Lorin.” La interruppe. “Mi vuole dire invece di queste noiose notizie se stasera ha da fare?”
Mirta inclinò la testa basita: “Mi perdoni?”
“Ma sì, se stasera ha voglia di uscire con me per una cena... tra colleghi, mettiamola così.” puntualizzò alzandosi Astolfo ma sempre mantenendo le mani attaccate alla scrivania.
“Mi dispiace... ma stasera ho già un impegno, voglia scusarmi...” arrossendo leggermente, la psicologa sparì da quella stanza in men che non si dica.
Astolfo sospirò, ingoiò aria e annuì a sé stesso. “Ma certo... faccia pure.”
Sommesso si immerse nuovamente nel suo lavoro.

La pausa pranzo giunse lentamente e Astolfo si liberò finalmente della cappa che avvolgeva la sua irrequieta quiete. La mensa serviva come sempre cibi mezzo raffreddati e dal sapore medicinale e stantio, ma una delle cose che più la gente amava di quel piccolo frangente in cui ognuno smetteva il suo lavoro per concedersi una pausa, era il caffè che veniva servito gratuitamente ai lavoratori. C’era persino un’addetta che si occupava di ciò.
Astolfo prese il suo vassoio e scrutò tavolo per tavolo la mensa. La visione del tavolo sul quale era appoggiata Mirta completamente vuoto migliorò il suo pranzo di migliaia di volte.
“È per caso occupato, signorina?” chiese docilmente poggiando il vassoio.
Quella alzò la testa e scrollò le spalle poco convinta.
L’uomo si sedette leggermente teso. La dottoressa Lorin stava leggendo l’edizione del mese di Focus, uno speciale sui buchi neri, dando ogni tanto una sorsata alla tazza di caffè.
“Che legge di interessante?” chiese ammaliato Astolfo.
La ragazza, spostando verso di lui la rivista e ruotandola per permettergli di leggere, si attaccò di nuovo al caffè.
“Mh, interessante...” si sciolse il direttore capendo che il suo misero tentativo di approccio non era andato a buon fine. “Che...” ebbe un attimo di stallo. “Che ne pensa del caffè, buonissimo no?”
“Mhm.” Si limitò ad emettere Mirta senza neanche degnarlo di uno sguardo dei suoi occhi assorti a scorrere lungo le righe della rivista tornata in suo possesso.
Di nuovo il discorso cadde nel nulla.
“E... lei non è un po’ affaticata dal lavoro? Insomma, è un periodo pieno ed sarà sicuramente difficile per il troppo da fare, non è forse il caso di prendersi una sera e uscire...”
Mirta, a quelle parole, inghiottì faticosamente il sorso di caffè, quasi si strozzò.
“Signore...” si passò il dorso della mano sulle labbra. “...mi scusi la poca disponibilità, ma come ha detto sono piena di impegni in questo periodo e n0n ho tempo neanche per...” meditò un poco. “...neanche per passare del tempo a casa col mio ragazzo.” concluse alzandosi e infilando come una spada rovente nel petto di Astolfo.
L’uomo fece una smorfia strana e trattenne il rossore.
“Le auguro un buon lavoro.” augurò cordialmente Mirta chinando il capo e avviandosi, portando il caffè in una mano e il vassoio in un’altra.
Astolfo rimase seduto al tavolo con un palmo di naso e il morale sotto la sedia. Storse il naso e si alzò anche lui lasciando tutto al tavolo, compreso il buonissimo caffè.

Astolfo sbatté la porta del bagno. Aprì il flusso dell’acqua e, raccoltane un po’ tra le mani, se la gettò sul viso. Si asciugò in fretta e furia e poi ficcò i suoi occhi in quelli del riflesso allo specchio. Metaforicamente parlando.

“Che hai di male? Avevi il nodo della cravatta slacciato? Una macchia sulla camicia? Ti sei rasato confusamente stamattina? Che hai di male?”

Sciolse le spalle sistemandosi il colletto e alzando il mento: “Pffff, figurarsi se una ragazzina come lei è capace di apprezzare lo charme di un gentiluomo come me...” e uscì dal bagno rinfilandosi la giacca di tartan.
Il suo ufficio era in perfetto ordine, i fogli messi in colonna e le penne perfettamente in riga con essi. Un paio di piantine spente e pigre davano un tocco di misera vitalità a quella stanza scura.
Con calma Astolfo alzò le tapparelle lasciando entrare una luminosa vagonata di fotoni che rischiararono la scrivania. La luce svegliò un Umbreon dormiente all’interno di un lettino per Pokémon che, nella sua debole presenza, rappresentava l’unica compagnia fedele e sempre disponibile di Astolfo. Il Pokémon, preso in un momento delicato, uscì dalla finestra camminando agilmente sul cornicione.
“Toc toc” fece la porta per la seconda volta quel giorno.
Astolfo si voltò verso di essa guardandola con aria di superiorità.
“Avanti.”
Si trattava di George, il suo segretario.
“Buongiorno, capo, finalmente abbiamo ottenuto il permesso di mandare avanti quel nuovo progetto del dottor Kemper, abbiamo ottenuto i fondi da parte del dipartimento della sanità di Johto.” Fece il segretario sorridente.
“Oh,  ne ero sicuro, questo istituto è il più grande della regione...” prese a enunciare alzando entrambe le mani.
George rimase leggermente interdetto da modo di fare del suo capo.
“Ma soprattutto...” proseguì. “...ha il miglior direttore che un manicomio potesse desiderare!”
La luce che proveniva dalle sue spalle e lo copriva leggermente alla vista dell’uomo che si trovava dalla parte opposta lo faceva quasi somigliare ad un dio. O almeno dava quell’impressione.
“Le vedi quelle?” domandò al segretario indicando due fogli incorniciati e appesi al muro. “Sono due lauree, le mie due lauree, che ho conquistato con il mio talento, stessa qualità prodigiosa che mi ha dato questo posto, il mio posto!” Esclamò battendosi più volte la mano sul petto.
George lo fissava incredulo, senza realizzare nella sua mente cosa stava vedendo.
“Hai qualcosa da aggiungere?”
L’uomo impiegò un po’ a rispondere: “N... no, signore...”
“Bene, puoi andare...”
“All’istante, signore...”
“Pulisciti i piedi.”
“Certamente signore...”
“Non ora, quando entri, non sporcare il meraviglioso pavimento di questa stanza con il lerciume della tua povera postazione di segretario!”
“Ehm... mi scusi signore, non  mi sembra un...”
“Un cosa?” quasi gridò Astolfo tornando in piedi. “Tu ce l’hai una ragazza, George?”
“Sono sposato, signore...” ormai gli riusciva faticoso pronunciare quell’appellativo.
“Bah, è proprio vero, le donne vanno tutte con i miseri insetti di nome George...” storse la bocca come provando repulsione per il nome appena pronunciato. “E non con geni di successo chiamati Astolfo.” Alzò le mani che allontanò progressivamente con la pronuncia delle sillabe del proprio nome come a sottolinearne la magnificenza.
Per un momento rimase in silenzio.
“Esci da questa stanza, Geo...”
Si accorse in quel momento che il segretario era già uscito.
Era rimasto solo, nella cupa cappa di potere che aveva nella sua stanza. Nella sua piccola stanza.
 
Lev

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