Giochi di luci, giochi di ombre; Sol Calante
In una calda serata estiva le città si animano. Gruppi di ragazzi popolano le strade, gironzolano per le vie spesso accompagnati dai loro Pokémon, oppure delle coppie di fidanzati passeggiano in cerca di un angolino tranquillo, intimo e appartato. Il tramonto colora l’orizzonte fino a tardi, dona un po’ di magia anche a grandi città come Amarantopoli che lo vede finché non scompare dietro i boschi di aceri rossi, intanto che illumina le foglie e le fa sembrare ancor più calde e accese.
Durante una di queste serate, un Pidgey volava lento e assonnato facendo lo slalom tra i tetti dei palazzi e le cime degli alberi. Cinguettava stancamente mentre si nascondeva da eventuali Allenatori in cerca di un nuovo membro per la loro squadra. E intanto proseguiva nei suoi giri per la città, senza una meta precisa.
Si stufò presto del panorama monotono della città. La Torre Campana pareva chiusa in una gabbia protettiva da una forza misteriosa che gli impediva di avvicinarsi, lo stesso si poteva dire per la Torre Bruciata. Il Teatro di Danza aveva perso il suo fascino da tempo e la Palestra non lo interessava minimamente.
Uscì dai confini della città. Riprese a svolazzare tra gli aceri rossi nella penombra della notte imminente. Il Sole pian piano scendeva giù, superava la linea dell’orizzonte, mentre la Luna si ingrandiva e la sua luce argentata si fortificava.
È bella la notte. Nasconde alla vista molti dettagli, inquieta e impaurisce con la sua aura di mistero.
Così come nascosto era il manicomio fuori i confini di Amarantopoli, che certamente inquietava e impauriva nel buio della notte. Le grida provenienti dal suo interno lottavano contro gli spessi muri insonorizzati, volevano uscire e annunciare all’intera città che la pazzia aveva un certo potere, grande e sconosciuto, e che sarebbe stato difficile combatterlo.
Astolfo era fiero di quelle grida.
Era appoggiato alla porta del suo appartamento, sopra la struttura del manicomio in cui si aggiravano i folli. Ridacchiava beffardo quando gli insulti a lui rivolti giungevano alle sue orecchie ormai abituate a quei rumori non più fastidiosi, che avrebbero scandalizzato chiunque altro. A lui non importava più nulla, anzi: quando andava a dormire gli pareva che quegli strilli conciliassero il suo sonno.
Non gli piaceva quando c’era troppa calma. Lo allarmava, perché stava a significare che qualcosa non andava bene.
C’era stato un periodo in particolare in cui gli assassinii tra i suoi imprigionati si erano fatti frequenti. Era stato una specie di effetto domino: aveva cominciato un tizio particolarmente squilibrato, pericoloso per sé stesso e per gli altri. La polizia non aveva fatto in tempo a sbatterlo al fresco che altri lo imitarono, accecati da una nuova furia guidata dalla stessa pazzia che li aveva portati là. I casi erano culminati in un’accesa lotta, una vera e propria carneficina che aveva decimato i rinchiusi nel manicomio.
Astolfo si era arrabbiato per questo. Aveva massimizzato le misure di sicurezza, tanto poteva permetterselo.
Il manicomio di Amarantopoli, l’House Of Psychiatric Experiments, aveva avuto i suoi periodi d’oro prima e dopo gli spiacevoli omicidi tra i soggetti. Dopo il rinnovo e il miglioramento della sicurezza e della struttura stessa, aveva acquisito tanto prestigio che lì venivano mandati anche criminali provenienti da altre regioni. Era molto famoso anche prima degli assassinii, ma solo all’interno di Johto.
Era un luogo temuto, e temuto era anche il proprietario.
Si diceva che lui stesso fosse pazzo. Pazzo? Astolfo rideva di cuore quando rileggeva vecchi articoli di giornale contenenti critiche e provocazioni per lui. Erano tutti così stupidi. Lui non era pazzo, era geniale. Lo potevano confermare libri e libri letti e riletti nella sua biblioteca privata. Aveva immagazzinato in sé il sapere di centinaia di anni di scoperte e rivoluzioni. Il suo Umbreon non si fidava di nessuno, se non di lui.
Ancora avevano il coraggio di ostinarsi a chiamarlo folle? A quanto pareva sì, lo avevano. Quello stesso coraggio, invece, non lo avevano i pazzi del manicomio, che lo insultavano da lontano ma segretamente lo temevano. Tremavano come foglie quando i passi di quell’uomo risuonavano per i corridoi.
In quei momenti si creava un silenzio particolare, l’unico che Astolfo apprezzasse: quello della paura. Per di più da lui stesso scatenata. Il suo ego si gonfiava di orgoglio e si elevava ai livelli di Dio, il Dio in cui lui non aveva mai creduto, quel Dio che era stato così perfido e malvagio da strappargli i suoi amati genitori, nonché la sanità mentale del fratello Zeno.
Zeno. Il suo nome era tabù.
Lo avrebbe trovato, quel pazzo piromane schifoso. Lo avrebbe trovato e su di lui avrebbe condotto i più atroci esperimenti che aveva elaborato. Quelli che su nessuno dei suoi prigionieri aveva ancora mai provato. Lo avrebbe fatto senza provare alcuna pietà o rimorso, non c’era più alcuna parvenza dell’affetto fraterno che un tempo, quando erano bambini, era stato così sciocco e ingenuo da provare.
Zeno.
Se solo avesse saputo quale bestia sarebbe diventato! Astolfo non riusciva più a sopportare alcuna fonte di calore. Qualsiasi cosa c’entrasse con il fuoco o il caldo, indirizzava i suoi contorti pensieri così tanto geniali verso i ricordi sempre in agguato per mandarlo in confusione.
Quei ricordi lo facevano impazzire davvero. Di dolore. Ma era pur sempre pazzia, quella stessa della quale veniva accusato. Solo Umbreon riusciva a placare quegli eccessi, che avrebbero fatto impallidire qualsiasi omicidio e forma di follia mai compiuti o esistiti.
Zeno.
I ricordi lo ustionavano. Sapeva di urlare mentre dormiva. Riviveva quei momenti ogni notte. Non ce la faceva più, ad essere sincero con sé stesso.
Gli incubi lo torturavano mostrandogli le fiamme, i carbonizzati corpi dei genitori ormai irriconoscibili che avevano svuotato i suoi polmoni dell’aria a forza di urla e le lacrime di disperata rabbia che gli avevano bagnato le guance, avevano ripulito il suo volto dalla fuliggine e dall’irrespirabile fumo dal quale si era salvato praticamente per miracolo.
I sogni gli mostravano invece il fratello. Astolfo vedeva le sue stesse mani pallide e tremanti compiere azioni scellerate, che però gli donavano una sensazione unica di piacere perverso. Quella di torturare Zeno. Così come lui lo aveva torturato portandogli via i genitori. E anche lui stesso.
Zeno.
Astolfo sapeva del suo profondo desiderio. Voleva distruggere anche quello, non lo accettava, non poteva essere così. Era sicuramente colpa di quella rotella di pazzia, evidentemente presente in tutta la famiglia, se in fondo - molto in fondo - desiderava il fratello con sé.
Certo, nella sua immaginazione più profonda non era più un piromane folle desideroso di distruzione. Erano due uomini normali. Ormai adulti, maturi, li affiancavano le loro mogli e dei meravigliosi bambini. Astolfo però non era stato fortunato in amore come nel lavoro. Era diventato ricco, enormemente ricco. Ma dentro si sentiva vuoto. Ciò era causato dall’assenza di affetto, di qualcuno che lo amasse o anche solo che gli volesse bene. Sarebbe stato un bel passo avanti. Era consapevole di ciò. Non sapeva dire se gli facesse male o se ci avesse fatto l’abitudine tanto da diventarne immune, proprio come dalle urla dei suoi pazzi.
Chissà se Zeno l’amore l’aveva trovato?
L’uomo rise freddamente mentre si staccava dalla porta e iniziava il suo giro notturno e quotidiano per l’appartamento. Umbreon sonnecchiava nella cesta di vimini accanto al suo letto. Aprì un occhio cremisi ma lo richiuse subito appena constatò che la situazione era sotto controllo.
Nessuno avrebbe mai potuto amare Zeno, lo sapeva bene Astolfo. Era pazzo. Ciò bastava a tenere lontano da lui chiunque. A meno che non avesse incontrato una donna altrettanto folle da trovare in lui qualcosa di buono e apprezzabile. Ma era sicuro che poi quella furia di suo fratello l’avrebbe uccisa senza pietà, con una freddezza inumana che male accompagnava il calore dominante nel suo spirito infuocato.
Astolfo si affacciò alla finestra semiaperta. Un Pidgey volò via dal balconcino, spaventato. Da cosa? Dal volto pallido, magro e malato di quell’uomo?
“Di cosa hai paura, Pidgey?” mormorò con voce roca, ridacchiando come un ubriaco. “Di me? Io sono così bello… non è vero, Umbreon?”
Non si aspettava una risposta. Non arrivò. Astolfo chiuse la finestra e andò a dormire.
Non pensò a nulla, era meglio così: prepararsi agli incubi che il suo inconscio serbava era mille volte peggio.
Non pensò alle belle forme della sua amata che tanto lo detestava.
Non pensò alle sagome divampanti delle fiamme.
Non pensò ai corpi martoriati e inceneriti dei suoi genitori.
Non pensò alla figura del fratello. Tanto l’avrebbe rivista quella stessa notte.
Astolfo strinse i pugni, le unghie poco curate si conficcarono nella pelle secca dei suoi palmi. Vedeva Zeno e aveva ribrezzo di lui e anche di sé stesso.
Lo sapeva che si somigliavano. Erano gemelli. Erano uguali.
Ma io sono meglio di lui.
Quel pensiero gli serviva per non uccidersi. Era sempre spaventosamente vicino al baratro così invitante del suicidio. Una voce dal fondo di esso gli prometteva la liberazione dalle sue pene, gli raccontava quanto fosse bello morire e non sentire più il peso della vita sulle proprie spalle. Ma quel pensiero faceva da barriera tra lui e l’orlo dell’abisso. Era bello anche quello. Lo faceva sentire come voleva essere: perfetto.
Sì, Astolfo aveva in sé la rotella della pazzia e la molla del suicidio, ma non le avrebbe usate perché era forte. E ciò lo rendeva perfetto, cancellava le tracce di quei peccati facenti parte di sé stesso. Era un peccato che lo sporcassero, se lo diceva spesso; ma riuscivano a renderlo fiero della sua resistenza.
Niente avrebbe mai corrotto o incrinato la sua perfezione.
Le luci dell’alba sono una fonte di gioia per chi ha paura del buio. E tutti, o quasi, lo temono. Portano con sé la verità, rivelano le identità di molte cose camuffate o nascoste dalla notte. È di giorno che la vita riprende, la notte si ferma; solo questo basta a dare sicurezza e a far preferire la luce all’oscurità.
Il Sole sorse anche quel giorno e inaugurò il dì come di consueto.
Astolfo si svegliò. Si maledisse, maledisse il mondo e maledisse Dio appena il suo cervello iniziò a lavorare. Ormai lo faceva ritualmente. La rabbia lo spingeva a farlo.
La rotella della pazzia girava lentamente, sì, ma quel poco bastava a scatenare in lui l’odio verso tutto e tutti.
Si alzò in piedi e osservò la camera impolverata, disordinata, sporca. Quella camera era diventata lo specchio dell’edificio del manicomio.
Lo avevano abbandonato tutti, Astolfo non riusciva a spiegarsi il perché. Avevano aperto un altro manicomio all’estero e il suo era andato in rovina. Aveva perso ogni cosa, ogni ricchezza accumulata. I debiti di gioco lo sopraffavano. Beveva per non pensarci, ma come al solito il sonno gli riportava alla mente tanti fatti scomodi e sgradevoli che andavano accumulandosi di giorno in giorno.
Usciva raramente dalla propria casa. Aveva paura dei Pokémon Spettro che infestavano i piani di sotto, quelli in cui una volta si aggiravano i suoi ‘amati’ prigionieri pazzi. La sua fonte di sostentamento se n’era andata.
Umbreon aveva lottato a lungo, ogni sera, per tenere lontani i fantasmi dall’appartamento dell’uomo. Era stata dura, sì, ma avevano imparato che non dovevano assolutamente oltrepassare il confine tra la casa di Astolfo e quello che una volta era stato il suo lavoro.
Piangeva spesso, senza rendersene conto. Più per la rabbia che per la tristezza.
Zeno.
Era tutta colpa di Zeno.
La furia omicida ardeva dentro di lui.
Tutto ciò che desiderava era spegnere quell’incendio.
L’acqua che avrebbe estinto il fuoco sarebbe stata la morte di Zeno.
Per mano sua.
Ink Voice
In una calda serata estiva le città si animano. Gruppi di ragazzi popolano le strade, gironzolano per le vie spesso accompagnati dai loro Pokémon, oppure delle coppie di fidanzati passeggiano in cerca di un angolino tranquillo, intimo e appartato. Il tramonto colora l’orizzonte fino a tardi, dona un po’ di magia anche a grandi città come Amarantopoli che lo vede finché non scompare dietro i boschi di aceri rossi, intanto che illumina le foglie e le fa sembrare ancor più calde e accese.
Durante una di queste serate, un Pidgey volava lento e assonnato facendo lo slalom tra i tetti dei palazzi e le cime degli alberi. Cinguettava stancamente mentre si nascondeva da eventuali Allenatori in cerca di un nuovo membro per la loro squadra. E intanto proseguiva nei suoi giri per la città, senza una meta precisa.
Si stufò presto del panorama monotono della città. La Torre Campana pareva chiusa in una gabbia protettiva da una forza misteriosa che gli impediva di avvicinarsi, lo stesso si poteva dire per la Torre Bruciata. Il Teatro di Danza aveva perso il suo fascino da tempo e la Palestra non lo interessava minimamente.
Uscì dai confini della città. Riprese a svolazzare tra gli aceri rossi nella penombra della notte imminente. Il Sole pian piano scendeva giù, superava la linea dell’orizzonte, mentre la Luna si ingrandiva e la sua luce argentata si fortificava.
È bella la notte. Nasconde alla vista molti dettagli, inquieta e impaurisce con la sua aura di mistero.
Così come nascosto era il manicomio fuori i confini di Amarantopoli, che certamente inquietava e impauriva nel buio della notte. Le grida provenienti dal suo interno lottavano contro gli spessi muri insonorizzati, volevano uscire e annunciare all’intera città che la pazzia aveva un certo potere, grande e sconosciuto, e che sarebbe stato difficile combatterlo.
Astolfo era fiero di quelle grida.
Era appoggiato alla porta del suo appartamento, sopra la struttura del manicomio in cui si aggiravano i folli. Ridacchiava beffardo quando gli insulti a lui rivolti giungevano alle sue orecchie ormai abituate a quei rumori non più fastidiosi, che avrebbero scandalizzato chiunque altro. A lui non importava più nulla, anzi: quando andava a dormire gli pareva che quegli strilli conciliassero il suo sonno.
Non gli piaceva quando c’era troppa calma. Lo allarmava, perché stava a significare che qualcosa non andava bene.
C’era stato un periodo in particolare in cui gli assassinii tra i suoi imprigionati si erano fatti frequenti. Era stato una specie di effetto domino: aveva cominciato un tizio particolarmente squilibrato, pericoloso per sé stesso e per gli altri. La polizia non aveva fatto in tempo a sbatterlo al fresco che altri lo imitarono, accecati da una nuova furia guidata dalla stessa pazzia che li aveva portati là. I casi erano culminati in un’accesa lotta, una vera e propria carneficina che aveva decimato i rinchiusi nel manicomio.
Astolfo si era arrabbiato per questo. Aveva massimizzato le misure di sicurezza, tanto poteva permetterselo.
Il manicomio di Amarantopoli, l’House Of Psychiatric Experiments, aveva avuto i suoi periodi d’oro prima e dopo gli spiacevoli omicidi tra i soggetti. Dopo il rinnovo e il miglioramento della sicurezza e della struttura stessa, aveva acquisito tanto prestigio che lì venivano mandati anche criminali provenienti da altre regioni. Era molto famoso anche prima degli assassinii, ma solo all’interno di Johto.
Era un luogo temuto, e temuto era anche il proprietario.
Si diceva che lui stesso fosse pazzo. Pazzo? Astolfo rideva di cuore quando rileggeva vecchi articoli di giornale contenenti critiche e provocazioni per lui. Erano tutti così stupidi. Lui non era pazzo, era geniale. Lo potevano confermare libri e libri letti e riletti nella sua biblioteca privata. Aveva immagazzinato in sé il sapere di centinaia di anni di scoperte e rivoluzioni. Il suo Umbreon non si fidava di nessuno, se non di lui.
Ancora avevano il coraggio di ostinarsi a chiamarlo folle? A quanto pareva sì, lo avevano. Quello stesso coraggio, invece, non lo avevano i pazzi del manicomio, che lo insultavano da lontano ma segretamente lo temevano. Tremavano come foglie quando i passi di quell’uomo risuonavano per i corridoi.
In quei momenti si creava un silenzio particolare, l’unico che Astolfo apprezzasse: quello della paura. Per di più da lui stesso scatenata. Il suo ego si gonfiava di orgoglio e si elevava ai livelli di Dio, il Dio in cui lui non aveva mai creduto, quel Dio che era stato così perfido e malvagio da strappargli i suoi amati genitori, nonché la sanità mentale del fratello Zeno.
Zeno. Il suo nome era tabù.
Lo avrebbe trovato, quel pazzo piromane schifoso. Lo avrebbe trovato e su di lui avrebbe condotto i più atroci esperimenti che aveva elaborato. Quelli che su nessuno dei suoi prigionieri aveva ancora mai provato. Lo avrebbe fatto senza provare alcuna pietà o rimorso, non c’era più alcuna parvenza dell’affetto fraterno che un tempo, quando erano bambini, era stato così sciocco e ingenuo da provare.
Zeno.
Se solo avesse saputo quale bestia sarebbe diventato! Astolfo non riusciva più a sopportare alcuna fonte di calore. Qualsiasi cosa c’entrasse con il fuoco o il caldo, indirizzava i suoi contorti pensieri così tanto geniali verso i ricordi sempre in agguato per mandarlo in confusione.
Quei ricordi lo facevano impazzire davvero. Di dolore. Ma era pur sempre pazzia, quella stessa della quale veniva accusato. Solo Umbreon riusciva a placare quegli eccessi, che avrebbero fatto impallidire qualsiasi omicidio e forma di follia mai compiuti o esistiti.
Zeno.
I ricordi lo ustionavano. Sapeva di urlare mentre dormiva. Riviveva quei momenti ogni notte. Non ce la faceva più, ad essere sincero con sé stesso.
Gli incubi lo torturavano mostrandogli le fiamme, i carbonizzati corpi dei genitori ormai irriconoscibili che avevano svuotato i suoi polmoni dell’aria a forza di urla e le lacrime di disperata rabbia che gli avevano bagnato le guance, avevano ripulito il suo volto dalla fuliggine e dall’irrespirabile fumo dal quale si era salvato praticamente per miracolo.
I sogni gli mostravano invece il fratello. Astolfo vedeva le sue stesse mani pallide e tremanti compiere azioni scellerate, che però gli donavano una sensazione unica di piacere perverso. Quella di torturare Zeno. Così come lui lo aveva torturato portandogli via i genitori. E anche lui stesso.
Zeno.
Astolfo sapeva del suo profondo desiderio. Voleva distruggere anche quello, non lo accettava, non poteva essere così. Era sicuramente colpa di quella rotella di pazzia, evidentemente presente in tutta la famiglia, se in fondo - molto in fondo - desiderava il fratello con sé.
Certo, nella sua immaginazione più profonda non era più un piromane folle desideroso di distruzione. Erano due uomini normali. Ormai adulti, maturi, li affiancavano le loro mogli e dei meravigliosi bambini. Astolfo però non era stato fortunato in amore come nel lavoro. Era diventato ricco, enormemente ricco. Ma dentro si sentiva vuoto. Ciò era causato dall’assenza di affetto, di qualcuno che lo amasse o anche solo che gli volesse bene. Sarebbe stato un bel passo avanti. Era consapevole di ciò. Non sapeva dire se gli facesse male o se ci avesse fatto l’abitudine tanto da diventarne immune, proprio come dalle urla dei suoi pazzi.
Chissà se Zeno l’amore l’aveva trovato?
L’uomo rise freddamente mentre si staccava dalla porta e iniziava il suo giro notturno e quotidiano per l’appartamento. Umbreon sonnecchiava nella cesta di vimini accanto al suo letto. Aprì un occhio cremisi ma lo richiuse subito appena constatò che la situazione era sotto controllo.
Nessuno avrebbe mai potuto amare Zeno, lo sapeva bene Astolfo. Era pazzo. Ciò bastava a tenere lontano da lui chiunque. A meno che non avesse incontrato una donna altrettanto folle da trovare in lui qualcosa di buono e apprezzabile. Ma era sicuro che poi quella furia di suo fratello l’avrebbe uccisa senza pietà, con una freddezza inumana che male accompagnava il calore dominante nel suo spirito infuocato.
Astolfo si affacciò alla finestra semiaperta. Un Pidgey volò via dal balconcino, spaventato. Da cosa? Dal volto pallido, magro e malato di quell’uomo?
“Di cosa hai paura, Pidgey?” mormorò con voce roca, ridacchiando come un ubriaco. “Di me? Io sono così bello… non è vero, Umbreon?”
Non si aspettava una risposta. Non arrivò. Astolfo chiuse la finestra e andò a dormire.
Non pensò a nulla, era meglio così: prepararsi agli incubi che il suo inconscio serbava era mille volte peggio.
Non pensò alle belle forme della sua amata che tanto lo detestava.
Non pensò alle sagome divampanti delle fiamme.
Non pensò ai corpi martoriati e inceneriti dei suoi genitori.
Non pensò alla figura del fratello. Tanto l’avrebbe rivista quella stessa notte.
Astolfo strinse i pugni, le unghie poco curate si conficcarono nella pelle secca dei suoi palmi. Vedeva Zeno e aveva ribrezzo di lui e anche di sé stesso.
Lo sapeva che si somigliavano. Erano gemelli. Erano uguali.
Ma io sono meglio di lui.
Quel pensiero gli serviva per non uccidersi. Era sempre spaventosamente vicino al baratro così invitante del suicidio. Una voce dal fondo di esso gli prometteva la liberazione dalle sue pene, gli raccontava quanto fosse bello morire e non sentire più il peso della vita sulle proprie spalle. Ma quel pensiero faceva da barriera tra lui e l’orlo dell’abisso. Era bello anche quello. Lo faceva sentire come voleva essere: perfetto.
Sì, Astolfo aveva in sé la rotella della pazzia e la molla del suicidio, ma non le avrebbe usate perché era forte. E ciò lo rendeva perfetto, cancellava le tracce di quei peccati facenti parte di sé stesso. Era un peccato che lo sporcassero, se lo diceva spesso; ma riuscivano a renderlo fiero della sua resistenza.
Niente avrebbe mai corrotto o incrinato la sua perfezione.
Le luci dell’alba sono una fonte di gioia per chi ha paura del buio. E tutti, o quasi, lo temono. Portano con sé la verità, rivelano le identità di molte cose camuffate o nascoste dalla notte. È di giorno che la vita riprende, la notte si ferma; solo questo basta a dare sicurezza e a far preferire la luce all’oscurità.
Il Sole sorse anche quel giorno e inaugurò il dì come di consueto.
Astolfo si svegliò. Si maledisse, maledisse il mondo e maledisse Dio appena il suo cervello iniziò a lavorare. Ormai lo faceva ritualmente. La rabbia lo spingeva a farlo.
La rotella della pazzia girava lentamente, sì, ma quel poco bastava a scatenare in lui l’odio verso tutto e tutti.
Si alzò in piedi e osservò la camera impolverata, disordinata, sporca. Quella camera era diventata lo specchio dell’edificio del manicomio.
Lo avevano abbandonato tutti, Astolfo non riusciva a spiegarsi il perché. Avevano aperto un altro manicomio all’estero e il suo era andato in rovina. Aveva perso ogni cosa, ogni ricchezza accumulata. I debiti di gioco lo sopraffavano. Beveva per non pensarci, ma come al solito il sonno gli riportava alla mente tanti fatti scomodi e sgradevoli che andavano accumulandosi di giorno in giorno.
Usciva raramente dalla propria casa. Aveva paura dei Pokémon Spettro che infestavano i piani di sotto, quelli in cui una volta si aggiravano i suoi ‘amati’ prigionieri pazzi. La sua fonte di sostentamento se n’era andata.
Umbreon aveva lottato a lungo, ogni sera, per tenere lontani i fantasmi dall’appartamento dell’uomo. Era stata dura, sì, ma avevano imparato che non dovevano assolutamente oltrepassare il confine tra la casa di Astolfo e quello che una volta era stato il suo lavoro.
Piangeva spesso, senza rendersene conto. Più per la rabbia che per la tristezza.
Zeno.
Era tutta colpa di Zeno.
La furia omicida ardeva dentro di lui.
Tutto ciò che desiderava era spegnere quell’incendio.
L’acqua che avrebbe estinto il fuoco sarebbe stata la morte di Zeno.
Per mano sua.
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