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The Artist - Painted Pictures - Acqua Fredda

Acqua Fredda                                                                


 

L’indomani mattina Dylan si alzò di buon ora nonostante di norma la sua giornata iniziasse verso le dieci, solo grazie ai suoi Pokémon che erano soliti svegliarlo.
Altrimenti non si sarebbe mai alzato. Avrebbe potuto viverci, in quel letto.
Non quella mattina però. Era in piedi dalle sette, continuava a camminare avanti e indietro per tutto il salone, davanti al camino al cui interno la cenere emanava ancora un debole calore.
Dylan si girò verso Tool che dormiva a pancia all’aria sul suo tappeto, con Pablo e Cleo su di lui.
L’unico già sveglio era Toddi, che si stava divertendo trasformandosi nei vari attrezzi per il camino che erano sparsi come sempre sul pavimento. Dylan si avvicinò e lo accarezzò su quella che doveva essere la testa.
“Stai facendo allenamento eh, Toddi? Io vado a farmi una doccia, tu fammi un favore, tieni d’occhio quei tre, ok? Non fargli combinare disastri”.
Gli diede un altro paio di pacche su quella che sembrava essere la sua testa e si avviò verso il bagno. Aprì la porta della doccia ed i rubinetti dell’acqua calda, lasciandola scorrere per un po’ in modo da non doversi lavare con acqua gelida come ogni volta che si dimenticava del fatto che doveva aspettare un paio di minuti per farla scaldare per bene. Si tolse i vestiti e si gettò sotto il getto dell’acqua e quando uscì dal bagno erano ormai le undici e ventisei quando si mostrò ai suoi Pokémon con i vestiti che aveva deciso per il pranzo con Dhalia, stabilito la sera prima.
“Ragazzi oggi è il gran giorno, ho deciso di dichiararmi e dire a Dhalia tutto ciò che provo per lei. Voi che dite, come sto?” Dylan concluse la frase spalancando le braccia e facendo un giro su se stesso.
Toddi si trasformò nel suo stesso allenatore, copiando alla perfezione il borsalino scuro che era poggiato sulla sua testa, il maglioncino grigio con sopra il cappotto nero che si abbinava ai pantaloni ed infine i suoi mocassini. Copiò anche i capelli di Dylan, spettinati come sempre, con ciocche ribelli dotate di volontà propria.
“Ok Toddi, lo prendo come un sì. Allora speriamo andrà bene. Forza ragazzi!”.
Dylan li fece rientrare nelle sfere ed uscì dall’appartamento.

La strada era stracolma di persone, tutte uscite per una passeggiata dopo l’acquazzone della sera precedente. Le saracinesche erano tutte alzate e si sentivano le grida provenienti dal mercato; la città si era svegliata e si faceva sentire forte e chiara da tutti i suoi abitanti.
Le pozzanghere ai lati della strada diventavano più frequenti mano a mano che Dylan si avvicinava alla spiaggia ed al molo, dove si trovava il ristorante scelto per l’appuntamento con Dhalia.
Arrivò sul pontile e lo percorse tutto, arrivando alla sua sommità.
Il ristorante si trovava per metà appoggiato su dei grossi pilastri di calcestruzzo ed era lì che aveva prenotato per due; sapeva che Dhalia amasse il mare quindi aveva deciso di dichiararle il suo amore in un posto che sarebbe piaciuto alla ragazza e che avrebbe ricordato per il resto della vita.
Dylan si sedette al tavolo e guardò l’orologio: dodici in punto.
Mezz’ora d’anticipo, mai successo in tutta la sua vita. Era sempre stato in ritardo per qualsiasi appuntamento o avvenimento importante; quella volta però si trovò addirittura ad essere lui a dover aspettare.
Si voltò verso Pablo, il suo Smeargle, che stava disegnando sulla sua tela. Il Pokémon stava riproducendo in maniera impeccabile tutto il lungomare visibile da quella terrazza, con le decine e decine di ombrelloni, di mille colori, che creavano un arcobaleno poggiato sulla sabbia. All’altro capo del lungomare si trovava il centro di ricerche dove Dhalia lavorava, vicinissimo ad una grande grotta naturale, proprio in mezzo al mare.
Cullato dal rumore del mare, Dylan si voltò verso il suo Pokémon quindi sorrise.
“Tale allenatore, tale Pokémon, giusto Pablo? Nemmeno tu perdi un solo attimo quando vuoi dipingere qualcosa; fammi vedere come sta venendo”.
Dylan prese la tela dalle mani del suo Pokémon, restando sbalordito dalla sua bravura nel dipingere. Avevano passato anni interi a dipingere assieme, correggendosi ed aiutandosi l’uno con l’altro, migliorando assieme, ma il Pokémon sembrava sempre più bravo. I suoi dipinti parevano fotografie.
Pablo era un ottimo pittore, su questo non c’era dubbio. Lo sguardo di Dylan saltava da un particolare ad un altro, soffermandosi sugli effetti creati con il chiaroscuro e sulla prospettiva aerea che aveva realizzato il suo Pokémon.
La differenza sostanziale tra i due era però che il Pokémon dipingeva in maniera perfetta il proprio soggetto senza omette il minimo particolare, solo per il gusto di fare.
Dylan invece, nelle imperfette capacità umane, aggiungeva alle sue croste la sua passione, i suoi sentimenti, rendendo ogni singolo scarabocchio un’istantanea unica.
Dylan impiegò parecchio tempo per analizzare il quadro fin nei minimi particolari, perdendo la cognizione del tempo. Il sole non era più alto nel cielo, le persone ai tavoli avevano volti nuovi e lo stomaco chiedeva sempre più insistentemente cibo.
Dylan controllò nuovamente l’orario: quattordici e venti.
“Maledizione è passato troppo tempo e io non me ne sono nemmeno accorto, Pablo! E ora? Dhalia non è ancora arrivata, non ha lasciato messaggi né ha provato a chiamare. Cosa è successo?!” chiese con l’ansia che traboccava dalle sue parole.
Il suo Smeargle lo fissava ma purtroppo non riusciva a dargli la risposta che tanto desiderava.
“Forse non voleva vedermi. O magari ha avuto un imprevisto e si è dimenticata d’avvisare. No ma cosa dico, queste sono cose da me... lei non le farebbe mai. Andiamo a vedere alla baia? Che ne dici Pablo? D’altronde era lì che doveva studiare i Clamperl”.
Pareva stesse cercando supporto morale nel suo Pokémon; il suo Pokémon rispose agitando la coda, sporcando la tovaglia del loro tavolo.
“Lo prendo per un sì, ma potevi evitare di insozzare la tovaglia! Adesso ci tocca correre via! Da chi hai preso tutta questa sbadataggine?” fece alzandosi. “Ah giusto. Da me. Beh non è importante ora, forza dobbiamo andare a vedere cos’è successo a Dhalia”.
Dylan si alzò e corse fuori dal ristorante, seguito da Pablo. Investirono due camerieri facendo cadere i piatti che portavano, motivo in più per correre via e lasciare il Molo 13, quel ristorante con un tavolo sporco di vernice ed una dipinto meraviglioso della vista della Baia poggiato ad un parapetto.

Camminò più velocemente che poteva lungo il grande pontile costeggiato dalle onde, rifacendo la strada a ritroso. Pablo non riusciva a seguirlo, almeno non correndo, e Dylan fu costretto a farlo rientrare nella sfera.
Il vento soffiava forte e lo costringeva a mantenere il borsalino con la mano destra; quella sinistra ondeggiava avanti e indietro, creando un arco di quasi centottanta gradi, grado più, grado meno.
Il respiro diventava affannoso, bruciava quell’aria fredda nei polmoni e intanto i passi diventavano sempre più veloci, e le gambe facevano sempre più male, ed anche i piedi, stretti in quelle scarpe eleganti, belle da vedere ma comode come trappole per topi sull’alluce.
La sua testa vagava, i pensieri lo bersagliavano dall’alto, rompendo il sottile strato di autostima che si era creato:

Non si è presentata perché non aveva il coraggio di dirmi in faccia che non aveva voglia di stare con me, oggi a pranzo. Forse aveva capito tutto. Sì, forse aveva capito tutto e, essendo una brava persona, non voleva recarmi un dispiacere. Ma non è venuta, e ciò significa che io non sono giusto, che non vado bene. Sicuramente a lei piace quel Mattew King che lavora con lei, alto, muscoloso e biondo.
Ed io sono... magro, con i capelli spettinati in testa e puzzo di tempera.
Anche se mi lavo, puzzo di tempera.

Il pontile terminò, attraversò velocemente la piazza centrale e si immise nella parte periferica; pochi minuti passati a camminare tra tante persone sorridenti che aspettavano il Natale e che si beavano per il freddo.
Fumo caldo e stanco fuoriusciva dalle bocche degli anziani seduti sulle panchine; a Dylan non piaceva il Natale: non faceva altro che ricordargli quanto fosse solo.
Guai a pensare di ritornare dalla sua famiglia... Quella comitiva di pazzi. Lui era decisamente una persona flessibile, riusciva ad adattarsi ai tanti cambiamenti della vita, alle sue stranezze e a tutta quell’altra moltitudine di fattori che si collocano tra il caso e la volontà; i suoi genitori, però, non riusciva a sopportarli.
Erano libertini.
Un po’ troppo. Entrambi avevano quasi settant’anni, oltre a sei figli, di cui lui era il quinto. Praticavano ogni tipo d’arte e d’espressione, in casa loro vigeva l’amore libero ed ogni tipo di stupefacente naturale.
O quasi... Ricordava la sfuriata della madre quando trovò tracce di LSD tra i rimasugli di uno spuntino notturno che aveva rimasto l’uomo e padre di famiglia seminudo sul divano.
“L’LSD non è naturale! Questa roba ti fa marcire il cervello!”.
Era la normalità, in casa sua. Non erano tuttavia cattive persone.
Eccentriche, ecco. Era questo l’aggettivo che più era attinente a loro.
Anche perché tutti e sei i figli erano venuti su con sani principi morali. Nessuno di loro faceva uso di quelle sostanze, e neanche di LSD.
La madre non voleva.
Scacciò via i pensieri e i visi grassocci dei suoi genitori dalla sua testa, quindi scese la grande scalinata che dava sulla spiaggia: questa era costeggiata da lunghe linee di scogli grigiastri su cui il mare s’infrangeva inesorabile. La sabbia era ancora umida; in qualche punto l’acqua ancora doveva asciugarsi ed erano rimaste piccole pozze ed accanto a queste le scarpe di Dylan affondavano leggermente.
A pochi metri dal mare c’era il suo ombrellone celeste, ancora aperto, con la strumentazione accesa.
Arrivato lì si guardò attorno ed attestò che la spiaggia fosse totalmente vuota. Ondate di vento artico lo costringevano a mantenersi il borsalino con la mano.
Il canto di qualche Wailmer risuonava dolce nell’aria, cullando i pensieri e cadenzando oltremodo il rumore delle onde che s’infrangevano sul bagnasciuga, che tutti i colpi sopportava.
“È ancora qui...” disse lui, guardando nuovamente l’orologio. “... Ma è tardi. Che le sia successo qualcosa?” farfugliava tra sé e sé.
L’orizzonte era lungi dall’essere una linea dritta, anzi: era in grado di vedere le piccole onde ingrossarsi e diventare minacciosi cavalloni prima di schiantarsi sulla battigia. Dylan sospirò, cercando di tirare fuori quell’ansia che lo stava attanagliando dalla sera precedente, quindi sistemò nuovamente il cappello.
“Dylan, Dylan, Dylan, Dylan... Ragiona, Dylan. Cosa può aver spinto Dhalia a ritardare di così tanto la salita dai fondali?”.
Alzò la testa per farsi baciare il volto dal sole, cercando una possibile soluzione, quando vide qualcuno da lontano scendere sulla spiaggia ed avvicinarsi ad una piccola barca ormeggiata: era un ragazzino;
Gli si avvicinò incerto, voltandosi nuovamente a fissare il mare, per vedere se Dhalia infrangesse la superficie con l’antiestetica quanto funzionale e necessaria muta da sub.
Niente.
“Ehm… Ciao” disse, con la voce spezzata dalla timidezza.
Il ragazzino si girò e lo guardò: era smilzo, con i capelli rossicci in testa, le lentiggini sul volto e gli occhi azzurri. “Ciao” rispose, tirando una grossa cima. Sembrava davvero pesante.
“Mi... mi chiedevo se avessi visto una ragazza che faceva immersioni...”.
“La baia è piena di gente che fa immersioni”.
“Aveva una muta da sub nera”.
Quello continuava a lavorare senza degnarlo di uno sguardo. “Non è l’unica al mondo”.
“Lo so, scusami, è che temo le sia successo qualcosa. Dice che studiava i Clamperl e...”
“Ci sono pochi esemplari di Clamperl, da queste parti. Io sto andando a catturarli per poter prendere le loro perle”.
“Quindi stai andando dove sono i Clamperl, qui nella baia?!”.
“Sì...” sospirò il ragazzino, saltando fuori dalla piccola barchetta di legno e cominciando a spingerla a fatica sulla sabbia. “Aiutami” disse.
Dylan andò a prua e cominciò a spingere, proprio accanto al ragazzo. “Era abbastanza alta, magra, con gli occhi verdi come gli smeraldi, ed i capelli neri e corti. Ed aveva le labbra molto belle e...”.
“Se aveva la muta non avrei potuto vedere tutti questi particolari”.
“Ma... Ok. Non è che potrei venire con te, per vedere se nella zona dove vivono i Clamperl trovo qualcosa?”.
“Va bene. Ma dovrai aiutarmi”.
“Ok, ti aiuterò. Dimmi solo che devo fare”.
“Per ora continua a spingere!” esclamò sotto sforzo il giovane, e pochi secondi dopo la barca entrò in mare. Dylan vide che subito il giovane corse in acqua e, con un salto, salì nell’imbarcazione, fermandosi poi a guardarlo.
“Che aspetti! Sali, prima che la corrente mi trascini a largo!”.
Dylan vide i suoi mocassini scamosciati e pianse mentalmente.

Per Dhalia.

Infilò i piedi nell’acqua gelida del mare e, bagnandosi anche la parte bassa dei pantaloni, scavalcò la piccola sponda della barca, salendovi.
Si sedette su di un piccolo sediolino ed abbassò la testa: attorno alle sue scarpe, ormai da buttare, vi erano cime e reti arancioni, piccole boe e varie canne da pesca. Dylan alzò gli occhi e vide il giovane porgergli qualcosa.
Due remi di legno.
“Forza” disse.
“Cosa?!” esclamò sorpreso quello.
“Sì, rema. Non è molto lontano”.
“Ma che...”.
“Non abbiamo tutta la mattinata”.
Dylan accettò, anche se non di buon grado, e quindi prese a remare verso il largo.

E passarono vari minuti, conditi da versi di sforzo e parole setacciate tra i denti, pensate ma non dette, prima che il piccolo ragazzino cominciasse a parlare.
“La zona dei Clamperl è lì, vicino quella scogliera...”.
Dylan imparò a virare in quel momento, e quindi lentamente si diresse verso il punto designato. Era sudato, tanto, ma poco gli interessava; il vento gli aveva fatto cadere il borsalino dalla testa più di una volta, ma lui lo aveva recuperato velocemente sempre.
Una volta arrivati, il ragazzino sollevò a fatica una piccola ancora e la gettò nell’acqua, che la accolse con un tonfo sordo.
“Ok. Se lei cercava i Clamperl, è qui che è venuta”.
Dylan si alzò all’in piedi, cercando di non perdere l’equilibrio; si guardò attorno, allungando lo sguardo verso la scogliera, ma non vide nulla: il mare era una tavola azzurra all’orizzonte, trasparente sotto di loro.
Il giovane prese la grande rete e la lanciò in acqua, quindi si sedette.
“E perché cerchi questa... Dhalia?” domandò il ragazzo, prendendo uno stuzzicadenti dalla tasca e stendendosi, paziente. La barca oscillava ogni tanto sotto il colpo di qualche onda più vivace, ma niente che preoccupasse quel giovane.
“Perché dovevo vederla...” Dylan guardò nuovamente l’orologio e sospirò. “Cinque ore fa, e lei non arriva mai in ritardo. No, quello sono io...”.
“Hai un bell’orologio”.
“Per l’appuntamento che avevo con lei ho deciso di mettere il migliore che avevo”.
“Brutta storia”.
“E tu come ti chiami?” domandò il più grande tra i due, rientrando i remi a bordo.
“Io sono David. Faccio il pescatore”.
“Sei giovanissimo. Tuo padre non può aiutarti?”.
“Mio padre non c’è più” chiuse lui, con la voce seria.
“Oh... E perché cerchi i Clamperl?”.
“Perché mia madre necessita di cure costose. E così venderò al mercato le perle dei Clamperl, dopo averli catturati”.
Dylan sospirò. C’era chi aveva grandi problemi e si sorprese della forza spirituale di quel ragazzino; non si era dato per vinto ed aveva deciso di mettersi in gioco per non perdere il poco che gli era rimasto.

Passarono due ore ancora, Dylan aveva fame e David gli diede un pezzo di pane raffermo che aveva conservato per i momenti di emergenza. Inutile dire che era parecchio duro e secco, ma Dylan non era mai stato tipo che faceva i capricci.
All’improvviso il ragazzino si alzò in piedi e guardò il compagno. “Attento, adesso”.
Prese a tirare la corda arancione che pendeva dalla barca, aggiungendo ad ogni movimento un verso di sforzo; la fune tirava su la rete, e sembrava non finire mai.
“È bella piena...” disse David, a denti stretti. Continuava a tirarla su e, arrivata verso il fondo, chiese l’aiuto di Dylan per sollevarla. Vari Pokémon si ritrovarono intrappolati sul fondo della barchetta.
C’erano un paio di Huntail, un Relichant e decine di Clamperl. Dylan vide un attimo di tranquillità nello sguardo di David, che sorrise. “Ottimo così. E questo cos’è?”.
Il ragazzino si abbassò; intrappolata tra le maglie della rete vi era una bandana blu. Spalancò gli occhi, la sciolse e si alzò in piedi.
“Questo non è buono...” disse.
“Che cos’è?”.
“Questa è una bandana”.
“Lo sapevo già... Intendo dire, a chi appartiene?”.
Rimirò la bandana, trovando al centro di essa e un’alfa stilizzata. “Ecco qui. Questa bandana apparteneva a qualcuno del Team Idro. E se il Team Idro era interessato alla tua Dhalia devi preoccuparti...”.
“Perché?!” esclamò terrorizzato Dylan, mantenendo ancora una volta il borsalino.
“Perché sono persone senza scrupoli. Si dice che quell’enorme roccia contenga la loro base segreta sotterranea...”.
“...”. Dylan era parecchio confuso e guardò il punto indicato da David. C’era un’insenatura naturale, lì. “Sono... sono pericolosi?”.
David sospirò ed annuì. “Sono senza scrupoli, lo ripeto...”.
“Dhalia è nelle loro mani!” realizzò poi. “Devo andare a salvarla! Accompagnami, andiamo!”.
“No!” stoppò subito lui. “Non posso rischiare. Ho un compito...”.
“Hai ragione, ma io devo andare subito lì” disse convinto, strappando la bandana dalle mani di David.
“Beh...”. Il pescatore prese il Super amo e lo gettò; fu il tempo di qualche respiro, che Dylan vide David sorridere e tirare su: un enorme Wailmer salì a galla, sorridente. Era altissimo e più grande della barca. La pelle era lucida.
“Eccoti qui! Bene, vai Ultraball!”
Senza nemmeno indebolirlo, il ragazzino lanciò la sfera dritta al centro della sua schiena, sullo sfiato, e catturò il Pokémon. Con un retino raccolse la Pokéball e la consegnò a Dylan.
“Ma... Ma come hai fatto?!” esclamò esterrefatto quello.
“Non chiedere. Ora questo Wailmer è tuo, usalo per farti portare lì. E buona fortuna”.

 
Angolo autori.
Ciao a tutti, e grazie per aver letto questo capitolo. Ringrazio inoltre chiunque abbia ben accolto con una recensione e con parole entusiastiche in privato i capitoli precedenti.
Il seguito dovrebbe, a meno che non crolli il mondo, il 7 Febbraio. O forse prima, dipende dagli impegni e dall'ispirazione, ma io lavoro tanto e Vespus ha l'ultimo anno di superiori quindi è poco probabile che si riesca a fare prima.
Ebbeh, che altro dire... A presto.



Andy

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