Nei panni di qualcun altro
Wailmer avanzava placido, cullato dalle onde incrinate della Baia di Verdeazzupoli; portava sul dorso un tesissimo Dylan che, non avendo mai praticato il Surf sulla schiena di un Pokémon prima di quel momento era sensibilmente nervoso.
Il respiro veniva spezzato spesso dal battito dei suoi denti, dato il forte freddo portato dai soffi di quel vento infame che aveva abbandonato lo status di leggera brezza a fine settembre, quando il Sole ancora riscaldava, insomma.
“Non è che potremmo andare più veloce, Wailmer... È che sono preoccupato! Dhalia, quella maledetta, proprio oggi doveva andare a controllare il fondale per quelle ostriche giganti!” si lamentò. Poi abbassò gli occhi e storse le labbra, pensando che se Dhalia lo avesse sentito lo avrebbe immediatamente messo al corrente del fatto che i Clamperl erano alcune delle forme di vita più antiche della terra, oltre ad essere Pokémon. Indi per cui c’è bisogno di maggiore studio per aumentare le nostre conoscenze al riguardo.
Dhalia usava sempre quell’indi per cui e lui sbuffava ogni volta, ritenendola assai pomposa come formula; Dylan dava molto peso alle parole.
Dylan dava molto peso a tutto, ed era quello il motivo per cui non aver visto Dhalia né alla baia né al ristorante costituiva per lui qualcosa di veramente difficile da metabolizzare.
Le paranoie, unite al freddo e all’esalazioni della vernice, avevano deciso di cominciare a girare un film che poteva vedere soltanto lui, e di cui i protagonisti erano lui e la bella biologa dai corti capelli scuri.
Pensò, ponendosi domande e cercando le risposte nel mare scuro e profondo.
“E se non si fosse proprio presentata? E se avesse organizzato tutto questo, con l’ombrellone sulla spiaggia per depistarmi? E se invece lei volesse mettermi in pericolo, consegnandomi nelle braccia di quei manigoldi?!”
Abbassò gli occhi e guardò la bandana blu che aveva raccolto assieme a quel pescatore giovane, forse fin troppo, dalla bocca del mare.
“Dhalia non sarebbe mai stata così cattiva...” sospirò, vergognandosi dei suoi pensieri. “Lei è in difficoltà, indi per cui devo correre a darle una mano! Wailmer, corri, forza! Dobbiamo raggiungere quella grossa roccia!” fece, indicando il punto con l’indice.
Il Pokémon cantò, con il suo verso caratteristico quindi accelerò velocemente, superando di diversi nodi delle piccole barchette che viaggiavano agitate sull’incedere nervoso delle onde.
“No!” urlò Dylan, terrorizzato dal repentino cambio di marcia. “Rallenta! Rallenta, ti prego!” urlò ancora, abbassato quanto più possibile sulla pelle viscida della schiena del suo Pokémon. Wailmer sembrò lamentarsi quando, sentendo la voce del ragazzo, fu costretto a rallentare repentino.
Si lamentò di nuovo, il Pokémon, come a protestare contro la scelta dell’Allenatore.
“So che vuoi correre, Wailmer, ma io non vorrei dover affrontare la mia sicurissima morte con i pantaloni sporchi di pipì...”.
Altro lamento di Wailmer, Dylan poi sospirò e gli carezzò il dorso. “Scusami... Prometto di lasciarti libero non appena questa brutta storia finirà... Del resto nella mia piccola soffitta non vedo dove infilarti...”.
Wailmer si lamentò di nuovo ma Dylan non gli diede peso.
No, perché la grande roccia si avvicinava.
“Dobbiamo riuscire ad entrare, Wailmer... Intanto però dovrei trovarti un nome, proprio come ho fatto per Pablo, Cleo, Toddi e Tool... Ma andiamo, non è mica il momento!” esclamò.
C’erano un paio di Wailmer schierati davanti l’ingresso del covo del Team Idro, con sopra due reclute.
“Un diversivo... Ci serve un diversivo, Wailmer...”
I due si nascosero dietro il fianco destro dell’enorme roccia e rimasero a guardare.
“Sono in piedi... uno scatto repentino di quelle due balenottere potrebbe farli cadere, fargli perdere l’equilibrio... Sarebbe perfetto, noi scatteremmo dentro e loro sarebbero ancora in acqua a cercare di capire. Ma cosa può far spostare velocemente due balene velocemente?”.
Pensò, arrovellandosi attorno ai suoi pensieri, avvitandosi nelle sue insicurezze.
Guardò l’immensità del mare, scuro e profondo, perdendosi lì dentro. Pensò al fatto che il mare fosse l’origine della vita, pensò al fatto che al suo interno fosse denso di creature, talvolta sconosciute.
“Anche gli Sharpedo...” pronunciò lui, distratto. Poi la lampadina gli si accese, facendo un po’ di chiarezza. Sorrise, capendo che nonostante la loro mole, i grandi Wailmer non fossero altro che prede dei grandi squali, degli Sharpedo.
“Sì... dovrebbe essere la strada giusta per superare l’ostacolo. Toddi, ricordi gli Sharpedo? Dovresti diventare uno di quelli. Bello grosso...” fece, dopo aver fatto uscire il Pokémon dalla sua sfera.
Ditto guardò confuso Dylan, sospiroso, che allora ebbe l’idea.
“Pablo, vieni fuori!” esclamò.
Smeargle venne fuori, con aria ancor più confuso di quella del suo Allenatore, quindi si accorse di essere su di un Wailmer e s’irrigidì, aggrappandosi alla gamba di Dylan con le mani e la coda.
“Non essere impaurito! Lui è un nostro amico, si chiama... Rubber! E tu sei qui perché devi disegnare velocemente sulla sua schiena uno Sharpedo da far vedere a Toddi. E che sia bello grande!”.
Pablo sospirò e lentamente abbandonò la gamba del suo Allenatore; mosse piccoli passi incerti, tastando con la zampetta la superficie morbida del dorso di quello che aveva capito chiamarsi Rubber. Dopo aver preso un po’ di fiducia si abbassò sulle ginocchia e con il palmo premette: era morbido.
Fece uno strano verso, quindi la coda lasciò cadere della vernice bianca; la stese e, totalmente assorto nel suo lavoro, cominciò a dipingervi sopra.
“Toddi, vedi, Pablo sta disegnando per te un Pokémon, che si chiama Sharpedo. Assomiglia ad uno squalo. Lo hai mai visto?”.
Lo sguardo di Ditto e la sua successiva espressione non sembrò assai rassicurante, quindi Dylan sbuffò. “Ok, continua a guardare. E tu, Pablo, non omettere dettagli e cerca di fare più in che puoi!”.
E alla fine lo fece. La definizione di quello Sharpedo non poteva essere perfetta, dopotutto era disegnato sul dorso di un Wailmer che con ogni probabilità soffriva il solletico, tuttavia, nel momento in cui Dylan avvicinò Toddi al risultato quello parve capire immediatamente.
Il piccolo Pokémon che si trovava ancora fra le braccia del suo allenatore iniziò lentamente a mutare forma, facendo ben poca attenzione all’equilibrio già precario di Dylan, che si vide costretto a gettare in acqua Toddi, per evitare di affogare entrambi.
“Toddi ma sei impazzito? Almeno potevi aspettare il mio via! Pablo è morto di paura per colpa tua!”.
Dal canto suo, Toddi sguazzava felicemente nell’acqua, infischiandosene delle grida del proprio Allenatore; come sempre i suoi Pokémon si divertivano a fare scherzi, nei momenti meno opportuni naturalmente.
Nonostante tutto, a Dylan scappò una risata nel vedere Toddi che faticava a muoversi nel mare, doveva ancora fare pratica con il suo nuovo aspetto. Ci vollero pochi minuti e tutti i preparativi furono completati. Pablo era fatto rientrare nella sua sfera, Toddi si dirigeva verso i due Wailmer lasciando soltanto la pinna dorsale visibile e Dylan era steso su di Rubber, stringendosi il più possibile al suo corpo, pregando per la sua vita.
“Ragazzi nel caso in cui debba accadermi qualcosa ricordatevi che vi voglio bene. Salvate il mio corpo, non lasciatelo divorare dai Wailmer”.
Inutile dire che Wailmer si lamentò.
Il pittore rimase in quella posizione per un lasso di tempo che sembrò un’eternità e poi sentì due tonfi, accompagnati dai versi spaventati dei due Wailmer che scappavano dal finto Sharpedo.
“Ha funzionato! Vai Rubber, andia...” le parole gli morirono in gola quando sentì il suo corpo accelerare mentre il suo mezzo di trasporto si avvicinava all’ingresso della grotta. Dylan non ebbe il coraggio di aprire gli occhi finché Rubber non si fermò e Toddi gli diede qualche colpo sulla testa.
Il ragazzo si sollevò e si avvicinò alla piccola rampa di scale che faceva da tramite fra il mare e l’interno della grotta. Fece rientrare nelle Pokéball Toddi e Rubber, per poi incamminarsi nel grande atrio.
L’illuminazione non era delle migliori, la stanza era schiarita da diversi neon posti ad incastro fra le pareti rocciose; le gocce d’acqua che cadevano dal soffitto si schiantavano al suolo, ammassandosi in piccole pozzanghere che riverberavano ogni volta che venivano colpite nuovamente dalle lacrime del soffitto.
Salendo le scale metalliche fu in grado di vedere una recluta che fissava inebetito il proprio cellulare, in barba alle raccomandazioni ed alle strigliate dell’Idrotenente.
“Se ti becco di nuovo con questo cazzo di cellulare in mano te lo infilo in bocca e te lo faccio ingoiare, Willis!”.
“Signorsì signore, mi scusi signore!”.
In fondo lo reputava soltanto un esaltato, un pazzo senza alcuna speranza di vedere la luce della ragione. Giocava a Candy Crush e superava l’ennesimo record, seduto su quella seggiola di legno marcio, piegato in avanti, poggiato con i gomiti sulle ginocchia.
Dylan lo vide e si abbassò immediatamente, sotto il bordo dell’ultimo scalino.
“Dannazione!” imprecò sottovoce. Doveva riuscire a trovare un metodo convincente per farlo spostare da dove si era piazzato, ovvero proprio di fronte a lui.
Abbassò lo sguardo e vide un ciottolo, nero e lucido.
Fu così che Willis sentì un tonfo sulle pareti di roccia, proprio oltre la zona d’immersione.
Alzò gli occhi dal cellulare e si guardò attorno, inquietato.
“Chi va là?!” urlò, spaventato.
Si alzò, prendendo due Pokéball in mano, continuando a guardare. Dylan scese un paio di scalini per evitare di farsi vedere, e si addosso alla parete sinistra, proprio il lato che Willis scelse per verificare cosa fosse successo.
I suoi passi risuonavano pesanti e stanchi, e l’eco li faceva ridondare in maniera fastidiosa, aumentando ancora di più l’ansia in Dylan.
Willis arrivò con estrema cautela alla parete di roccia e la fissò con estrema attenzione, notando qualsiasi particolare. Scalciò un ciottolo, nero e lucido, facendolo cadere in acqua, e tornò a risedersi.
Tutto era tranquillo e non aveva minimamente visto la porta del corridoio aprirsi e chiudersi.
“Ok... Sono dentro” disse a se stesso il giovane pittore, sospirando sollevato. Il corridoio era estremamente lungo, illuminato soltanto dagli sporadici lampioni a campana che si trovavano ogni circa tre metri; porte grigie ed anonime erano incastonate nelle pareti lungo tutto l’enorme passeggio, mattonellato con larghe e marmoree lastre che incrementavano quella sensazione di forte disagio.
Lui camminava lentamente, fregandosene del fatto che qualche telecamera avrebbe potuto localizzarlo. Si avvicinò alla prima porta a destra, e la aprì.
Tutto buio.
“Dhalia...” sussurrò ancora il pittore, andando a cercare con la mano un interruttore ipotetico che non tardò a trovare. La luce si accese, mostrando tante piccole brandine, serrate tra di loro come quadri bianchi e neri su di una scacchiera.
Stanza vuota, niente Dhalia, solo una folata d’aria viziata che gli fece storcere il naso.
Uscì ed aprì quella di fronte.
Uguale.
E fu uguale per tutte le porte che aprì, cominciando a riempirsi d’ansia, traboccando come se fosse sotto ad una tempesta.
“Dove sei?!” si lamentava, cercando la ragazza e non trovandola, sperando che ogni volta che il relè desse il permesso alla luce di attivarsi il filamento illuminasse il volto di Dhalia.
Si girava di tanto in tanto alle spalle, pregando che nessuno uscisse dalle porte che ancora doveva aprire. Era tanto nervoso che a stento riusciva a controllarsi; le labbra tremavano da sole, anche le mani.
Arrivato più o meno alla fine del corridoio sentì dei passi avvicinarsi. Si voltò, fece un giro di ricognizione attorno e provò ad intercettare con lo sguardo l’avventore, non trovandolo.
“Willis sarà di nuovo con il cellulare in mano, sicuramente. Doveva essere nella sala grande mezz’ora fa...”.
Porca... C’è qualcuno!
Dylan si voltò sconsolato, comprendendo che oltre l’ultima porta del corridoio si stava avvicinando qualcuno. Si girò nuovamente e corse verso la porta più vicina a lui. A luci spente, con il battito impazzito e gli occhi sbarrati nel buio.
Riconobbe di essere un tantino nervoso e non riusciva a biasimarsi, nemmeno provandoci. Sentì il cigolio pesante della porta, la ascoltò poi chiudersi, sbattendo.
Seguirono poi dei passi, e delle voci.
“Cioè, non capisco per quale motivo Willis debba avere un ruolo così dannatamente semplice! Deve star seduto su di una seggiola a fantasticare! Non ti sembra, Louis, una cosa strana?!” chiese un primo.
“I raccomandati sono ovunque, Spugna...” rispose lascivo un secondo.
I passi si avvicinavano, rimbombavano nella testa di Dylan come colpi di grancassa, ed intanto il suo cuore sembrava esplodere fuori dal petto, pronto per lanciarsi giù e morire sul pavimento che aveva davanti.
“Lo penso anche io! D’altronde, come faceva Xander a notare proprio l’assenza di Willis?! Cioè, non credo che ricordi le facce ed i nomi di tutte le reclute, Louis! Invece lui ha proprio detto: voi due! Andate a chiamare quel cretino di Willis!”.
“Già, Spugna, Xander ha detto proprio così...”.
“A me non convince quel tizio. Willis intendo. Vogliamo scommettere che adesso lo troviamo con quel diamine di cellulare in mano, mentre gioca a Candy Crush?!”.
“Probabile”.
“Mi fa piacere che la pensi come me... Ma la tua bandana dov’è?!”.
Dylan sentì qualcuno sospirare proprio al di fuori della porta che aveva accanto. Si erano fermati.
“L’ho persa in mare, prima, rapendo la biologa... anzi, ora che me lo ricordi, mi conviene prendere quell’altra che ho qui in stanza, prima che Xander voglia usarmi come sacco da boxe”.
“Quell’uomo è malato...”.
“Chiama Willis, io intanto cerco la bandana. Sarà sicuramente sul fondo della valigia”.
Fu quello il momento in cui il cuore e la mente del pittore si incontrarono all’altezza della gola. Fu un riflesso spontaneo, sentì la maniglia della porta abbassarsi lentamente e poi vide la luce che avida s’infilava nella camera, mano a mano che la porta si apriva.
Dylan era defilato, e lo vide entrare, accendere la luce girato di spalle e chiudere la porta.
Lo vide avanzare verso il fondo della stanza, dove si trovavano gli armadietti personali delle reclute; aprì il terzo partendo da sinistra. Facendolo, i cardini cigolarono, facendo rabbrividire ancor di più il pittore, ormai nascosto al di sotto della prima brandina che era riuscito a raggiungere.
“Maledizione, mi serve un piano…” sussurrò poi alle sue Pokéball mentre osservava il suo nemico: quel Louis era un ragazzo biondo, magro, dall’aspetto così fragile che sembrava capace di potersi spezzare da un momento all’altro. Tuttavia era parecchio alto.
Troppo alto.
“Come diavolo faccio a toglierlo di mezzo? Di sicuro non con i Pokémon, tutti mi sentirebbero... No. Oppure... forse un’idea ce l’ho. Se non funziona cremate il mio corpo” disse con un filo di voce, parlando ai suoi Pokémon, al sicuro nelle loro sfere.
Senza fare il minimo rumore, Dylan sgusciò via dalla brandina liberandosi dal gelido contatto con il pavimento, lurido ed appiccicoso, per poi incamminarsi verso Louis.
Lo sentiva lamentarsi.
“Ma perché toccano sempre la mia roba?! Maledizione, non riesco a trovare più nulla in quest’armadietto. Giuro che se è stato uno scherzo di Willis lo uccido” gridò Louis, scavando sempre più a fondo per poter ritrovare la sua bandana di riserva.
Dylan era a pochi metri da lui, quando caricò sulle ginocchia e saltò sulla brandina affianco agli armadietti.
“Ma che caz..?” urlò per l’improvviso rumore di molle, Louis, prima di essere raggiunto in pieno volto dal diretto destro di Dylan, che era riuscito ad elevarsi di parecchio grazie alla spinta del materasso unito alla poca forza delle sue gambe tremanti.
Louis sbatté la testa contro l’armadietto, per poi cadere a terra, privo di sensi.
Il collo era piegato verso il basso, spinto verso il petto, e gli occhi erano chiusi.
Dylan lo guardò, spaventato. “Oh santo cielo...” sussultò. “È morto! Oh cazzo è morto! Oh cazzo è morto! E ora che faccio? Io volevo solo stordirlo e legarlo, e lui muore così! E ora che faccio?! Tool esci!” fece, sempre più nervoso.
L’enorme Rhydon fuoriuscì dalla sua sfera, guardandosi stranito attorno. Vide Dylan avvicinarglisi.
“Tool aiutami ti prego, io non volevo ucciderlo. Dobbiamo trovare un posto dove nasconderlo!”.
Tool inizialmente cercò d’interpretare le parole del pittore, quindi ruggì e si chinò per afferrare il lungo e sinuoso corpo della recluta.
“Hai trovato?! Hai qualche idea?!” chiese di nuovo, sempre più nervoso e tremante.
Il suo Rhydon si mosse goffamente nel tentativo di raggiungere l’armadietto che aveva davanti; voleva chiuderlo lì. Guardò Dylan per cercare conferme a riguardo, ricevendo un sorriso.
“Ottima idea!” sorrise. “Anzi, aspetta! Prima prenderò i suoi vestiti, in modo da passare inosservato… Rimettilo a terra, dammi cinque minuti”.
Tool sbuffò spazientito, appoggiò la Recluta per terra e si stese stanco su di una brandina, sfondandola quasi.
Dylan svestì il nemico e gli rubò i vestiti, infine lo chiuse nell’armadietto. Almeno prima di far rientrare Tool nella sfera.
“Ok sono pronto, Dhalia mi aspetta”.
Dylan uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Era meno nervoso di qualche minuto prima, lo doveva ammettere. Forse perché era vestito come le persone che cercava di fronteggiare.
Si avviò lentamente, acquistando sicurezza ad ogni passo. Si permetteva anche il lusso di tenere alto il mento, osservandosi attorno con garbo e posatezza.
E poi una voce lo fece sprofondare nuovamente nel terrore.
“Tu, dove stai andando? Siamo in ritardo per la riunione! Sbrigati e vieni con noi”
Forse era un Idrotenente o probabilmente un’unità di qualche grado minore, in quanto si permetteva di indossare una maschera di rimprovero sul volto. Era abbastanza adulto da poter portare la maglietta a righe con quel filo di pancia senza essere malgiudicato. La barba scura ospitava qualche chiazza candida ma negli occhi c’era ancora la scintilla del leone.
“Chi sei? Non ti ho mai visto, e le reclute passano tutte sotto il mio sguardo” chiese.
“L-Louis signore, sono arrivato o-oggi” titubò il pittore in incognito.
“Ah ecco il perché, devi ancora capire come funziona qui. Beh poco importa, seguimi, dobbiamo andare nell’atrio. Xander ci deve parlare”.
“S-signorsì signore” aggiunse Dylan, rassegnandosi alla sua morte certa. Quasi certa.
Quasi certa.
Angolo Autori:
Consci del ritardo nella pubblicazione, Andy e Vespus si scusano. Oggi fuori il quarto capitolo della storia, dovremmo essere più o meno a metà della vicenda. Vi ringrazio per aver letto i capitoli precedenti oltre al suddetto.
Rimanete sui nostri canali, il 7 Marzo dovrebbe uscire il quinto capitolo.
- Andy
Wailmer avanzava placido, cullato dalle onde incrinate della Baia di Verdeazzupoli; portava sul dorso un tesissimo Dylan che, non avendo mai praticato il Surf sulla schiena di un Pokémon prima di quel momento era sensibilmente nervoso.
Il respiro veniva spezzato spesso dal battito dei suoi denti, dato il forte freddo portato dai soffi di quel vento infame che aveva abbandonato lo status di leggera brezza a fine settembre, quando il Sole ancora riscaldava, insomma.
“Non è che potremmo andare più veloce, Wailmer... È che sono preoccupato! Dhalia, quella maledetta, proprio oggi doveva andare a controllare il fondale per quelle ostriche giganti!” si lamentò. Poi abbassò gli occhi e storse le labbra, pensando che se Dhalia lo avesse sentito lo avrebbe immediatamente messo al corrente del fatto che i Clamperl erano alcune delle forme di vita più antiche della terra, oltre ad essere Pokémon. Indi per cui c’è bisogno di maggiore studio per aumentare le nostre conoscenze al riguardo.
Dhalia usava sempre quell’indi per cui e lui sbuffava ogni volta, ritenendola assai pomposa come formula; Dylan dava molto peso alle parole.
Dylan dava molto peso a tutto, ed era quello il motivo per cui non aver visto Dhalia né alla baia né al ristorante costituiva per lui qualcosa di veramente difficile da metabolizzare.
Le paranoie, unite al freddo e all’esalazioni della vernice, avevano deciso di cominciare a girare un film che poteva vedere soltanto lui, e di cui i protagonisti erano lui e la bella biologa dai corti capelli scuri.
Pensò, ponendosi domande e cercando le risposte nel mare scuro e profondo.
“E se non si fosse proprio presentata? E se avesse organizzato tutto questo, con l’ombrellone sulla spiaggia per depistarmi? E se invece lei volesse mettermi in pericolo, consegnandomi nelle braccia di quei manigoldi?!”
Abbassò gli occhi e guardò la bandana blu che aveva raccolto assieme a quel pescatore giovane, forse fin troppo, dalla bocca del mare.
“Dhalia non sarebbe mai stata così cattiva...” sospirò, vergognandosi dei suoi pensieri. “Lei è in difficoltà, indi per cui devo correre a darle una mano! Wailmer, corri, forza! Dobbiamo raggiungere quella grossa roccia!” fece, indicando il punto con l’indice.
Il Pokémon cantò, con il suo verso caratteristico quindi accelerò velocemente, superando di diversi nodi delle piccole barchette che viaggiavano agitate sull’incedere nervoso delle onde.
“No!” urlò Dylan, terrorizzato dal repentino cambio di marcia. “Rallenta! Rallenta, ti prego!” urlò ancora, abbassato quanto più possibile sulla pelle viscida della schiena del suo Pokémon. Wailmer sembrò lamentarsi quando, sentendo la voce del ragazzo, fu costretto a rallentare repentino.
Si lamentò di nuovo, il Pokémon, come a protestare contro la scelta dell’Allenatore.
“So che vuoi correre, Wailmer, ma io non vorrei dover affrontare la mia sicurissima morte con i pantaloni sporchi di pipì...”.
Altro lamento di Wailmer, Dylan poi sospirò e gli carezzò il dorso. “Scusami... Prometto di lasciarti libero non appena questa brutta storia finirà... Del resto nella mia piccola soffitta non vedo dove infilarti...”.
Wailmer si lamentò di nuovo ma Dylan non gli diede peso.
No, perché la grande roccia si avvicinava.
“Dobbiamo riuscire ad entrare, Wailmer... Intanto però dovrei trovarti un nome, proprio come ho fatto per Pablo, Cleo, Toddi e Tool... Ma andiamo, non è mica il momento!” esclamò.
C’erano un paio di Wailmer schierati davanti l’ingresso del covo del Team Idro, con sopra due reclute.
“Un diversivo... Ci serve un diversivo, Wailmer...”
I due si nascosero dietro il fianco destro dell’enorme roccia e rimasero a guardare.
“Sono in piedi... uno scatto repentino di quelle due balenottere potrebbe farli cadere, fargli perdere l’equilibrio... Sarebbe perfetto, noi scatteremmo dentro e loro sarebbero ancora in acqua a cercare di capire. Ma cosa può far spostare velocemente due balene velocemente?”.
Pensò, arrovellandosi attorno ai suoi pensieri, avvitandosi nelle sue insicurezze.
Guardò l’immensità del mare, scuro e profondo, perdendosi lì dentro. Pensò al fatto che il mare fosse l’origine della vita, pensò al fatto che al suo interno fosse denso di creature, talvolta sconosciute.
“Anche gli Sharpedo...” pronunciò lui, distratto. Poi la lampadina gli si accese, facendo un po’ di chiarezza. Sorrise, capendo che nonostante la loro mole, i grandi Wailmer non fossero altro che prede dei grandi squali, degli Sharpedo.
“Sì... dovrebbe essere la strada giusta per superare l’ostacolo. Toddi, ricordi gli Sharpedo? Dovresti diventare uno di quelli. Bello grosso...” fece, dopo aver fatto uscire il Pokémon dalla sua sfera.
Ditto guardò confuso Dylan, sospiroso, che allora ebbe l’idea.
“Pablo, vieni fuori!” esclamò.
Smeargle venne fuori, con aria ancor più confuso di quella del suo Allenatore, quindi si accorse di essere su di un Wailmer e s’irrigidì, aggrappandosi alla gamba di Dylan con le mani e la coda.
“Non essere impaurito! Lui è un nostro amico, si chiama... Rubber! E tu sei qui perché devi disegnare velocemente sulla sua schiena uno Sharpedo da far vedere a Toddi. E che sia bello grande!”.
Pablo sospirò e lentamente abbandonò la gamba del suo Allenatore; mosse piccoli passi incerti, tastando con la zampetta la superficie morbida del dorso di quello che aveva capito chiamarsi Rubber. Dopo aver preso un po’ di fiducia si abbassò sulle ginocchia e con il palmo premette: era morbido.
Fece uno strano verso, quindi la coda lasciò cadere della vernice bianca; la stese e, totalmente assorto nel suo lavoro, cominciò a dipingervi sopra.
“Toddi, vedi, Pablo sta disegnando per te un Pokémon, che si chiama Sharpedo. Assomiglia ad uno squalo. Lo hai mai visto?”.
Lo sguardo di Ditto e la sua successiva espressione non sembrò assai rassicurante, quindi Dylan sbuffò. “Ok, continua a guardare. E tu, Pablo, non omettere dettagli e cerca di fare più in che puoi!”.
E alla fine lo fece. La definizione di quello Sharpedo non poteva essere perfetta, dopotutto era disegnato sul dorso di un Wailmer che con ogni probabilità soffriva il solletico, tuttavia, nel momento in cui Dylan avvicinò Toddi al risultato quello parve capire immediatamente.
Il piccolo Pokémon che si trovava ancora fra le braccia del suo allenatore iniziò lentamente a mutare forma, facendo ben poca attenzione all’equilibrio già precario di Dylan, che si vide costretto a gettare in acqua Toddi, per evitare di affogare entrambi.
“Toddi ma sei impazzito? Almeno potevi aspettare il mio via! Pablo è morto di paura per colpa tua!”.
Dal canto suo, Toddi sguazzava felicemente nell’acqua, infischiandosene delle grida del proprio Allenatore; come sempre i suoi Pokémon si divertivano a fare scherzi, nei momenti meno opportuni naturalmente.
Nonostante tutto, a Dylan scappò una risata nel vedere Toddi che faticava a muoversi nel mare, doveva ancora fare pratica con il suo nuovo aspetto. Ci vollero pochi minuti e tutti i preparativi furono completati. Pablo era fatto rientrare nella sua sfera, Toddi si dirigeva verso i due Wailmer lasciando soltanto la pinna dorsale visibile e Dylan era steso su di Rubber, stringendosi il più possibile al suo corpo, pregando per la sua vita.
“Ragazzi nel caso in cui debba accadermi qualcosa ricordatevi che vi voglio bene. Salvate il mio corpo, non lasciatelo divorare dai Wailmer”.
Inutile dire che Wailmer si lamentò.
Il pittore rimase in quella posizione per un lasso di tempo che sembrò un’eternità e poi sentì due tonfi, accompagnati dai versi spaventati dei due Wailmer che scappavano dal finto Sharpedo.
“Ha funzionato! Vai Rubber, andia...” le parole gli morirono in gola quando sentì il suo corpo accelerare mentre il suo mezzo di trasporto si avvicinava all’ingresso della grotta. Dylan non ebbe il coraggio di aprire gli occhi finché Rubber non si fermò e Toddi gli diede qualche colpo sulla testa.
Il ragazzo si sollevò e si avvicinò alla piccola rampa di scale che faceva da tramite fra il mare e l’interno della grotta. Fece rientrare nelle Pokéball Toddi e Rubber, per poi incamminarsi nel grande atrio.
L’illuminazione non era delle migliori, la stanza era schiarita da diversi neon posti ad incastro fra le pareti rocciose; le gocce d’acqua che cadevano dal soffitto si schiantavano al suolo, ammassandosi in piccole pozzanghere che riverberavano ogni volta che venivano colpite nuovamente dalle lacrime del soffitto.
Salendo le scale metalliche fu in grado di vedere una recluta che fissava inebetito il proprio cellulare, in barba alle raccomandazioni ed alle strigliate dell’Idrotenente.
“Se ti becco di nuovo con questo cazzo di cellulare in mano te lo infilo in bocca e te lo faccio ingoiare, Willis!”.
“Signorsì signore, mi scusi signore!”.
In fondo lo reputava soltanto un esaltato, un pazzo senza alcuna speranza di vedere la luce della ragione. Giocava a Candy Crush e superava l’ennesimo record, seduto su quella seggiola di legno marcio, piegato in avanti, poggiato con i gomiti sulle ginocchia.
Dylan lo vide e si abbassò immediatamente, sotto il bordo dell’ultimo scalino.
“Dannazione!” imprecò sottovoce. Doveva riuscire a trovare un metodo convincente per farlo spostare da dove si era piazzato, ovvero proprio di fronte a lui.
Abbassò lo sguardo e vide un ciottolo, nero e lucido.
Fu così che Willis sentì un tonfo sulle pareti di roccia, proprio oltre la zona d’immersione.
Alzò gli occhi dal cellulare e si guardò attorno, inquietato.
“Chi va là?!” urlò, spaventato.
Si alzò, prendendo due Pokéball in mano, continuando a guardare. Dylan scese un paio di scalini per evitare di farsi vedere, e si addosso alla parete sinistra, proprio il lato che Willis scelse per verificare cosa fosse successo.
I suoi passi risuonavano pesanti e stanchi, e l’eco li faceva ridondare in maniera fastidiosa, aumentando ancora di più l’ansia in Dylan.
Willis arrivò con estrema cautela alla parete di roccia e la fissò con estrema attenzione, notando qualsiasi particolare. Scalciò un ciottolo, nero e lucido, facendolo cadere in acqua, e tornò a risedersi.
Tutto era tranquillo e non aveva minimamente visto la porta del corridoio aprirsi e chiudersi.
“Ok... Sono dentro” disse a se stesso il giovane pittore, sospirando sollevato. Il corridoio era estremamente lungo, illuminato soltanto dagli sporadici lampioni a campana che si trovavano ogni circa tre metri; porte grigie ed anonime erano incastonate nelle pareti lungo tutto l’enorme passeggio, mattonellato con larghe e marmoree lastre che incrementavano quella sensazione di forte disagio.
Lui camminava lentamente, fregandosene del fatto che qualche telecamera avrebbe potuto localizzarlo. Si avvicinò alla prima porta a destra, e la aprì.
Tutto buio.
“Dhalia...” sussurrò ancora il pittore, andando a cercare con la mano un interruttore ipotetico che non tardò a trovare. La luce si accese, mostrando tante piccole brandine, serrate tra di loro come quadri bianchi e neri su di una scacchiera.
Stanza vuota, niente Dhalia, solo una folata d’aria viziata che gli fece storcere il naso.
Uscì ed aprì quella di fronte.
Uguale.
E fu uguale per tutte le porte che aprì, cominciando a riempirsi d’ansia, traboccando come se fosse sotto ad una tempesta.
“Dove sei?!” si lamentava, cercando la ragazza e non trovandola, sperando che ogni volta che il relè desse il permesso alla luce di attivarsi il filamento illuminasse il volto di Dhalia.
Si girava di tanto in tanto alle spalle, pregando che nessuno uscisse dalle porte che ancora doveva aprire. Era tanto nervoso che a stento riusciva a controllarsi; le labbra tremavano da sole, anche le mani.
Arrivato più o meno alla fine del corridoio sentì dei passi avvicinarsi. Si voltò, fece un giro di ricognizione attorno e provò ad intercettare con lo sguardo l’avventore, non trovandolo.
“Willis sarà di nuovo con il cellulare in mano, sicuramente. Doveva essere nella sala grande mezz’ora fa...”.
Porca... C’è qualcuno!
Dylan si voltò sconsolato, comprendendo che oltre l’ultima porta del corridoio si stava avvicinando qualcuno. Si girò nuovamente e corse verso la porta più vicina a lui. A luci spente, con il battito impazzito e gli occhi sbarrati nel buio.
Riconobbe di essere un tantino nervoso e non riusciva a biasimarsi, nemmeno provandoci. Sentì il cigolio pesante della porta, la ascoltò poi chiudersi, sbattendo.
Seguirono poi dei passi, e delle voci.
“Cioè, non capisco per quale motivo Willis debba avere un ruolo così dannatamente semplice! Deve star seduto su di una seggiola a fantasticare! Non ti sembra, Louis, una cosa strana?!” chiese un primo.
“I raccomandati sono ovunque, Spugna...” rispose lascivo un secondo.
I passi si avvicinavano, rimbombavano nella testa di Dylan come colpi di grancassa, ed intanto il suo cuore sembrava esplodere fuori dal petto, pronto per lanciarsi giù e morire sul pavimento che aveva davanti.
“Lo penso anche io! D’altronde, come faceva Xander a notare proprio l’assenza di Willis?! Cioè, non credo che ricordi le facce ed i nomi di tutte le reclute, Louis! Invece lui ha proprio detto: voi due! Andate a chiamare quel cretino di Willis!”.
“Già, Spugna, Xander ha detto proprio così...”.
“A me non convince quel tizio. Willis intendo. Vogliamo scommettere che adesso lo troviamo con quel diamine di cellulare in mano, mentre gioca a Candy Crush?!”.
“Probabile”.
“Mi fa piacere che la pensi come me... Ma la tua bandana dov’è?!”.
Dylan sentì qualcuno sospirare proprio al di fuori della porta che aveva accanto. Si erano fermati.
“L’ho persa in mare, prima, rapendo la biologa... anzi, ora che me lo ricordi, mi conviene prendere quell’altra che ho qui in stanza, prima che Xander voglia usarmi come sacco da boxe”.
“Quell’uomo è malato...”.
“Chiama Willis, io intanto cerco la bandana. Sarà sicuramente sul fondo della valigia”.
Fu quello il momento in cui il cuore e la mente del pittore si incontrarono all’altezza della gola. Fu un riflesso spontaneo, sentì la maniglia della porta abbassarsi lentamente e poi vide la luce che avida s’infilava nella camera, mano a mano che la porta si apriva.
Dylan era defilato, e lo vide entrare, accendere la luce girato di spalle e chiudere la porta.
Lo vide avanzare verso il fondo della stanza, dove si trovavano gli armadietti personali delle reclute; aprì il terzo partendo da sinistra. Facendolo, i cardini cigolarono, facendo rabbrividire ancor di più il pittore, ormai nascosto al di sotto della prima brandina che era riuscito a raggiungere.
“Maledizione, mi serve un piano…” sussurrò poi alle sue Pokéball mentre osservava il suo nemico: quel Louis era un ragazzo biondo, magro, dall’aspetto così fragile che sembrava capace di potersi spezzare da un momento all’altro. Tuttavia era parecchio alto.
Troppo alto.
“Come diavolo faccio a toglierlo di mezzo? Di sicuro non con i Pokémon, tutti mi sentirebbero... No. Oppure... forse un’idea ce l’ho. Se non funziona cremate il mio corpo” disse con un filo di voce, parlando ai suoi Pokémon, al sicuro nelle loro sfere.
Senza fare il minimo rumore, Dylan sgusciò via dalla brandina liberandosi dal gelido contatto con il pavimento, lurido ed appiccicoso, per poi incamminarsi verso Louis.
Lo sentiva lamentarsi.
“Ma perché toccano sempre la mia roba?! Maledizione, non riesco a trovare più nulla in quest’armadietto. Giuro che se è stato uno scherzo di Willis lo uccido” gridò Louis, scavando sempre più a fondo per poter ritrovare la sua bandana di riserva.
Dylan era a pochi metri da lui, quando caricò sulle ginocchia e saltò sulla brandina affianco agli armadietti.
“Ma che caz..?” urlò per l’improvviso rumore di molle, Louis, prima di essere raggiunto in pieno volto dal diretto destro di Dylan, che era riuscito ad elevarsi di parecchio grazie alla spinta del materasso unito alla poca forza delle sue gambe tremanti.
Louis sbatté la testa contro l’armadietto, per poi cadere a terra, privo di sensi.
Il collo era piegato verso il basso, spinto verso il petto, e gli occhi erano chiusi.
Dylan lo guardò, spaventato. “Oh santo cielo...” sussultò. “È morto! Oh cazzo è morto! Oh cazzo è morto! E ora che faccio? Io volevo solo stordirlo e legarlo, e lui muore così! E ora che faccio?! Tool esci!” fece, sempre più nervoso.
L’enorme Rhydon fuoriuscì dalla sua sfera, guardandosi stranito attorno. Vide Dylan avvicinarglisi.
“Tool aiutami ti prego, io non volevo ucciderlo. Dobbiamo trovare un posto dove nasconderlo!”.
Tool inizialmente cercò d’interpretare le parole del pittore, quindi ruggì e si chinò per afferrare il lungo e sinuoso corpo della recluta.
“Hai trovato?! Hai qualche idea?!” chiese di nuovo, sempre più nervoso e tremante.
Il suo Rhydon si mosse goffamente nel tentativo di raggiungere l’armadietto che aveva davanti; voleva chiuderlo lì. Guardò Dylan per cercare conferme a riguardo, ricevendo un sorriso.
“Ottima idea!” sorrise. “Anzi, aspetta! Prima prenderò i suoi vestiti, in modo da passare inosservato… Rimettilo a terra, dammi cinque minuti”.
Tool sbuffò spazientito, appoggiò la Recluta per terra e si stese stanco su di una brandina, sfondandola quasi.
Dylan svestì il nemico e gli rubò i vestiti, infine lo chiuse nell’armadietto. Almeno prima di far rientrare Tool nella sfera.
“Ok sono pronto, Dhalia mi aspetta”.
Dylan uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Era meno nervoso di qualche minuto prima, lo doveva ammettere. Forse perché era vestito come le persone che cercava di fronteggiare.
Si avviò lentamente, acquistando sicurezza ad ogni passo. Si permetteva anche il lusso di tenere alto il mento, osservandosi attorno con garbo e posatezza.
E poi una voce lo fece sprofondare nuovamente nel terrore.
“Tu, dove stai andando? Siamo in ritardo per la riunione! Sbrigati e vieni con noi”
Forse era un Idrotenente o probabilmente un’unità di qualche grado minore, in quanto si permetteva di indossare una maschera di rimprovero sul volto. Era abbastanza adulto da poter portare la maglietta a righe con quel filo di pancia senza essere malgiudicato. La barba scura ospitava qualche chiazza candida ma negli occhi c’era ancora la scintilla del leone.
“Chi sei? Non ti ho mai visto, e le reclute passano tutte sotto il mio sguardo” chiese.
“L-Louis signore, sono arrivato o-oggi” titubò il pittore in incognito.
“Ah ecco il perché, devi ancora capire come funziona qui. Beh poco importa, seguimi, dobbiamo andare nell’atrio. Xander ci deve parlare”.
“S-signorsì signore” aggiunse Dylan, rassegnandosi alla sua morte certa. Quasi certa.
Quasi certa.
Angolo Autori:
Consci del ritardo nella pubblicazione, Andy e Vespus si scusano. Oggi fuori il quarto capitolo della storia, dovremmo essere più o meno a metà della vicenda. Vi ringrazio per aver letto i capitoli precedenti oltre al suddetto.
Rimanete sui nostri canali, il 7 Marzo dovrebbe uscire il quinto capitolo.
- Andy
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