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Andy Black - TSR - 34 - Castigo pt. 5



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34. Castigo pt. 4
- Sinnoh, Nevepoli, Snowflake -

Terrie planava sul suo Gliscor, attaccata da quegli uomini in bianco. Il suo Pokémon però era agile e riuscì a evitare ogni offensiva avversaria.
In più dal retro vedeva il Magmortar di Vulcano utilizzare forti attacchi di tipo Fuoco, direttamente sulla folla.
Un po’ sadico, ma sapeva che per difendere le persone a cui teneva, il Superquattro dai capelli ricci non guardava in faccia a nessuno.
Nemmeno alla morte.
Gli attacchi ad alta gittata di Magmortar andavano a colpire Pokémon e persone a più di centro metri di distanza, con grande precisione. Del resto era pur sempre stato allenato da una delle personalità più abili di Sinnoh.
La Superquattro si abbassava sul suo Pokémon, decisa a raggiungere Aaron e l’altra unità avversaria che lo stava mettendo a dura prova.
Drifblim era sempre più vicino.
Stridio” ordinò al suo Pokémon, che emise onde ad alta frequenza. Gli avversari furono tutti costretti a fermarsi; taluni si piegarono su se stessi.
Puntuale arrivò l’attacco di Magmortar, che col suo Pirolancio colpì senza pietà molti di quelli.
E così Terrie riuscì ad avanzare.
“Ottimo, Vulcano” sorrise la donna. La neve colpiva il suo volto candido. In gioventù era macchiato da efelidi, ma col tempo erano svanite e diventate sterili macchie scure.
Ricordava se stessa quando il mondo esterno non era bianco e nero come in quei giorni; il bianco e nero era riservato soltanto alla televisione.
Suo padre era abbiente. Vivevano nella lontana Unima, quando per le strade di Austropoli la gente ancora si salutava e non c’era quella fretta cronica a instillare ansia e agorafobia alle persone.
I giovani erano più gentili e i vicoli non erano così pericolosi.
Ricordava, Terrie, che la sua casa era la prima della schiera, al quarto piano di un antico palazzo. Dalla finestra dello studio di suo padre poteva chiaramente vedere il golfo. Certi giorni entrava di soppiatto lì dentro, perché suo padre non voleva che lei stesse nel suo ufficio personale, e rimaneva incantata a guardare le barche che dal porto salpavano per chissà dove.
Il riflesso allo specchio la mostrava ancora come una ragazzina, dai capelli biondi e gli occhi color nocciola.
E le lentiggini sul naso.
Col tempo tanto era cambiato, lei era cresciuta, aveva amato, aveva smesso d’amare e s’era innamorata di nuovo.
Aveva perso la speranza quando le avevano detto che il suo ventre non avrebbe mai contenuto un figlio e gli occhi le si riempirono di lacrime, sia quando scoprì d’essere incinta che quando estrassero il feto senza vita dal suo corpo.
Era scappata, era andata via, era cresciuta. Era invecchiata.
Ripensava alla sua vita, a tutti i sacrifici e alla sola unica costante: l’avventura.
Ricordava alla perfezione il momento in cui decise di diventare un’Allenatrice di Pokémon.
Il limite oltre cui non potesse spingersi era Piazza Centrale di Austropoli, ovvero il punto di convergenza di tutte le strade che dal lungomare salivano verso il deserto.
Ed era proprio il deserto a incuriosirla.
Un giorno, armata di coraggio, varco il cancello immaginario che sua madre aveva posto oltre la statua costruita al centro della piazza. Si sentiva una bandita ma vedeva, poco oltre il bosco bruciato a nord della città, la sabbia del deserto.
Sì, perché non vi era alcun varco, all’epoca. Le mura delle città erano solo immaginarie, i grandi boschi spadroneggiavano lungo le paludi e non c’erano tutti quei ponti a collegare i meravigliosi luoghi che lei stessa guardava con un occhio di nostalgia.
Tutto più selvaggio. Tutto più libero.
I suoi piedi erano nella sabbia già qualche decina di metri prima dell’ultimo albero.
Faceva caldo e la sua pelle candida bruciava sotto il sole estivo. Tuttavia continuava ad avanzare.
Voleva scoprire cosa ci fosse, in quel meraviglioso posto. Suo padre aveva più volte parlato di un meraviglioso castello sommerso nelle polveri dorate del deserto, e avrebbe mentito a se stessa se avesse negato che la gran parte di quella spedizione punitiva non fosse stata motivata dalla ricerca di quelle antiche rovine.
E aveva soltanto cinque anni.
Le rovine non le trovò, no. Ma fece amicizia, quel giorno, col primo Pokémon che avesse mai visto al di fuori della sua città.
Era un Geodude, incastrato nella sabbia. Terrie, che poi scoprì essere quel Pokémon totalmente al di fuori del proprio habitat, c’inciampò sopra, smuovendolo.
Le sembrava un sasso, e invece era un Pokémon; scendeva di nascosto, certe volte, portandogli delle Pokémelle o qualche bacca che riusciva a raccattare da casa.
E lo fece tutti i giorni, per un anno.
Una notte decise di entrare nello studio di suo padre e rubare pochi centesimi. Lo fece di soppiatto, sgattaiolando dal letto e strisciando i piedi nudi sul pavimento per evitare di fare rumore.
Aprì la porta dello studio, che cigolò lentamente; trattenne il respiro, sperando che i suoi genitori non si fossero svegliati. E quando entrò non accese neppure la luce.
Aveva visto, una volta, suo padre mettere le monete all’interno del quarto cassetto della scrivania. E quindi la sua direzione fu quella.
Sessantasette cent.
Forse non erano abbastanza.
Uscì fuori e richiuse la porta, andando lentamente verso il salotto, prendendo la via diretta del cappotto di suo padre. Infilò le mani nelle tasche.
In quella destra non c’era nulla.
In quella sinistra sentì qualcosa. Carta.
Tirò fuori, vedendo banconote da cento Pokédollari.
Spalancò gli occhi, sapeva che fossero soldi anche quelli. Ma no, a lei interessavano le monete. Affondò ancora la mano e toccò degli spiccioli.
Sorrise.
Li afferrò e li aggiunse ai propri, scappando silenziosamente nella sua stanza e addormentandosi stringendo quelle preziosissime monete, che per chiunque equivalevano a meno di un dollaro ma che per lei erano le chiavi d’accesso per una nuova e futura vita.
Quel Geodude sarebbe diventato col senno di poi il suo migliore amico, anche se quel mattino di giugno, quando giugno non era ancora così caldo, lei non lo sapeva.
Si recò al porto, sentendosi enormemente sporca dentro per aver rubato quei pochi cent a suo padre, e questo perché si sentiva in colpa.
Tuttavia sapeva che se avesse chiesto anche solo un dollaro ai suoi genitori quelli avrebbero cominciato a chiedersi perché, e la spiegazione della loro bambina non gli sarebbe piaciuta.
Avrebbero sicuramente posto il loro veto alla faccenda, tirando in ballo la storia di sua cugina Agatha, fuggita di casa col sogno di catturare i Pokémon già da bambina.
Fu la prima volta che Terrie ebbe il coraggio di fermarsi davanti alla bancarella con le Pokéball.
Generalmente la carezzava soltanto con lo sguardo sfuggente, quando accompagnava sua madre al mattino a prendere il pescato appena scaricato dalle barche di rientro nella baia.
Quel giorno invece fu differente.
Si presentò davanti agli occhi del mercante di sfere, un uomo sulla quarantina dalla barba sfatta e lo sguardo affascinante.
Si chiamava Eddie e aveva viaggiato in lungo e in largo.

“Buongiorno. Può darmi una Pokéball, per favore?”.
L’uomo fissò con occhi gioiosi la piccola che gli si era parata davanti. Le sorrise, inclinando un po’ di più il banco, permettendole di osservare per bene la merce.
“Ciao bella bimba. Che Pokéball ti serve?”.
Terrie spalancò gli occhi. “Io… Ho quasi un dollaro e…” balbettò gentilmente, avvampando.
Eddie sorrise.
“Fammi vedere quanto hai racimolato”.
La bambina aprì la mano, mostrando gli ottanta e rotti centesimi. Vide l’uomo inarcare il sopracciglio e allargare il sorriso.
“Quelli non bastano, sai, per queste sfere?”.
E in effetti aveva ragione: erano tutte rarissime Pokéball artigianali, costruite a Johto.
“E quanto costano le Pokéball?” domandò ingenua quella, scatenando un ennesimo sorriso nell’uomo.
“Un Pokédollaro e cinquanta cent…”.
“Ma è più di quanto ho io!”.
“Perché non vai dalla tua mamma a chiedere il resto?”.
Terrie sbuffò. “Non mi darà mai altri…” prese a contare con le dita. “… sessantadue centesimi…”.
“Sessantatré” rettificò l’altro.
“Oh. Mi scusi. È che ai miei genitori non piace che io giochi coi Pokémon ma l’altro giorno ne ho incontrato uno nel deserto e ho paura che possa farsi del male…”.
Eddie addolcì lo sguardo.
“Siamo diventati amici, e vorrei stare assieme a lui per tutto il tempo”.
“Che Pokémon è?” domandò quindi l’uomo.
“Si chiama Geo… Geodu… de. Geodude. L’ho letto in un libro del mio papà, qualche giorno fa. Ho dovuto cercarlo nell’intera enciclopedia”.
“Ci avrai messo tempo”.
Terrie annuì, vedendo poi il mercante allungare le mani verso una sfera dalla calotta grigia decorata con semisfere azzurre. La pose poi tra le mani della ragazzina e la guardò negli espressivissimi occhi color nocciola, spalancati per via della sorpresa.
Erano grati.
“Tieni, piccola”.
“Ma le devo dare ancora sessantatré centesimi!”.
“Questa te la regalo io. Cattura il tuo Geodude e proteggilo, così lui farà altrettanto per te”.

La bambina sorrise, pose i soldini nella tasca dell’infeltrita giacca rosa e strinse la sfera, correndo con garbo fino a quando le sue scarpine nere con gli occhielli non affondarono nella sabbia.
Quel giorno catturò il suo Pokémon e lo nascose abilmente.
Quella notte rimise i soldi al suo posto.
Riuscì a tenere nascosto Geodude per qualche settimana, prima che sua madre lo scoprisse. Suo padre sbottò ma alla fine le permisero di tenere quello che alla fine diventò un potentissimo Golem.

“Forza, Randall” disse Terrie, in volo sul suo Gliscor. La sfera che aveva tra le mani rilasciò il possente Golem, appallottolato nel suo guscio, che cadeva pesante sulla schiera di balordi con la mimetica bianca e grigia. Avrebbe dovuto usare Rotolamento, ma quei due si conoscevano da così tanto tempo che la loro sintonia era praticamente perfetta, rendendo gli ordini del tutto superflui.
Dal basso poi, non videro nient’altro che una sfera scura avvicinarsi come un proiettile.
Atterrò su due uomini, uccidendoli sul colpo.
Terrie lasciò lì Golem, avanzando rapida verso Aaron e Driblim, quando qualcosa saltò ai suoi occhi: in mezzo a quelle persone, a quei manigoldi, c’era Gardenia.
Spalancò gli occhi, col cuore che batté potente nel petto.
“Scendiamo…” disse poi, alterando il tono di voce in modo da non riuscire a celare la crescente preoccupazione. “Acrobazia” sussurrò poi, vedendo il proprio Pokémon cominciare a roteare vorticosamente, eseguendo piroette perfette e colpendo altri due avversari, mettendoli fuori combattimento.
Terrie stringeva Gliscor al collo. Lo nascondeva bene, ma aveva paura di volare.
L’aria non era il suo elemento.
“Gardenia!” urlò la donna, riprendendo quota. Vide la Capopalestra di Ebanopoli colpita da un forte ceffone sul volto.
Ricadde nella neve.
“Scendiamo!” ordinò poi Terrie al suo Pokémon. “E usiamo di nuovo Acrobazia!”.
Detto fatto, il vento sul volto della Superquattro era diventato un tormento, pareva strapparle le carni dalle guance, impietosamente.
Colpì altri avversari, Gliscor, per poi frapporsi tra Gardenia e l’uomo che la stava malmenando.
“Fermatevi! State picchiando una donna!”.

“Luciano! Luciano, Terrie è scesa per terra!”.
La voce di Aaron risuonò metallica all’interno della trasmittente. Gli occhi dell’uomo con gli occhiali si spalancarono, al pari di quelli di Vulcano.
“Che cosa diamine stai dicendo?!” urlò quest’ultimo, indietreggiando di qualche passo. Cercò sicurezza nello sguardo di Luciano e attese la risposta.
“È a terra! Ed è con… con Gardenia!” ribatté l’altro.
I due si guardarono ancora.
“Com’è possibile?! Camilla non ci ha comunicato nulla riguardo l’assenza di Gardenia! Anzi!” continuò quello dai capelli rossi.
“Sta lottando!” riprese Aaron.
"Ma è da sola! Luciano, devo andare!".
L'uomo dai capelli viola si voltò verso di lui, rapido. "Non fare cazzate!".
"Dobbiamo recuperare Terrie!" urlò Vulcano, avvicinandosi precipitosamente all'altro. "Non possiamo lasciarla lì! Rischia di morire!".
"Dobbiamo difendere lo Snowflake" rispose subito Luciano, con aplomb.
"Terrie morirà!".
Luciano allungò lo sguardo oltre il ciuffo riccio dell'uomo che aveva di fronte e cercò di mettere a fuoco la scena.
Ma nulla.
Non vedeva.
Pochi secondi dopo Vulcano non c'era più; correva a perdifiato nella prateria innevata.

"Perché vi comportate in questo modo?!" urlava Terrie, visibilmente contrariata. Alle sue spalle c'era Gardenia, ancora stesa nella neve, con la guancia rossa e un rivoletto di sangue che le usciva dalla bocca.
Uno di quelli, il più grosso, la spintonò, facendola cadere accanto alla più giovane, cominciando poi a ridere.
"Vecchia di merda... levati dai coglioni".
E a vederla, così piccola e fragile in mezzo alla neve, quasi faceva specie pensare che la potenza e l’allenamento di quella, nel corso degli anni, avrebbe potuto portarla a essere nell’Elite della Lega Pokémon.
“Randall!” esclamò, con quella voce soffice ma stizzita, denotando la solita ma quantomeno fuori luogo educazione.
Ci vollero pochi secondi e il suo Golem rotolò fino al suo fianco, tra la neve e il sangue, colpendo anche quello sgherro. Lui fu colpito alla spalla e ricadde dolorante sul manto candido e congelato.
“Bravo, amico mio” sorrise dolcemente l’anziana signora. Si voltò per un minuto, vedendo il volto di Gardenia emaciato e impaurito.
Avrebbe voluto dirle che certe cose erano più grandi di loro; che spesso, anche credendo di fare del bene, c’è chi crede di fare del male con più intensità.
Avrebbe voluto dirle che era giovane, e quella battaglia era giusto che la combattesse al suo fianco, com’era altrettanto giusto che fuggisse e pensasse a coltivare la propria vita.
Ma non poteva.
Erano responsabilità di cui doveva farsi carico.
“Perché sei qui fuori?” domandò, facendo attenzione a quelli che aveva di fronte.
“Dovevo aiutare Marzia. Non potevo rischiare che qualcuno facesse del male alla mia migliore amica…”.
Gli occhi color nocciola di quella sembravano fari nella notte buia, in quel campo innevato. I capelli erano spettinati, il labbro inferiore continuava a perdere sangue e il sole di quel mattino non spingeva con la giusta insistenza per uscire dalla coltre di nuvole nere.
“Hai fatto una sciocchezza”.
“Lo so…” annuì quella, rimettendosi lentamente in piedi. “Ma ne usciremo… Noi siamo i buoni. Noi ne usciamo sempre”.

“Camilla, qui Luciano”.
La Campionessa si voltò rapida verso Marisio. Sentire la voce del Superquattro la preoccupava.
Nutriva grande rispetto per il più forte tra i Superquattro. Lo reputava un tipo assai quadrato, mentalmente. Schematico.
Era un genio tattico, quello. Una di quelle persone che aveva sempre tutto sotto controllo e che, nel momento del bisogno, riusciva a cacciare sempre un asso dalla manica.
Un vero top player.
Ecco perché quando lui la contattava lei si preoccupava. Si chiedeva: perché Luciano, l’abilissimo Luciano ha bisogno di me?
La sua voce era intrisa di preoccupazione.
“Che succede?” domandò la Campionessa.
“L’avvicinamento del Drifblim coi Capipalestra rimanenti sta risultando più difficile del previsto… Aaron serviva da rinforzo eventuale, perché l’avvicinamento sarebbe dovuto essere veloce ma…”.
“Ma quei tre volano su di una dannatissima mongolfiera!” esclamò quella, sbuffando poi.
“Hanno intercettato Aaron… Io sono rimasto qui, erigendo la barriera psichica di difesa, e il piano prevedeva che Terrie e Vulcano attaccassero a distanza dall’alto. Questo avrebbe permesso l’arrivo più agevole dei rinforzi ma…”.
“Hanno intercettato Aaron…” ripeté la Campionessa, sospirando.
“Un gruppo si è staccato e ha cominciato ad attaccarlo. E Terrie ha deciso di volergli andare a dare manforte…”.
Camilla guardò ancora Marisio e fece cenno di no con la testa.
“Non dovrebbero esserci problemi… Sono due Superquattro, tra gli Allenatori più forti che conosco…”.
“Sì, ma Terrie è scesa per terra” rispose Luciano.
Due secondi di silenzio.
“Come?! Perché mai?!”.
L’uomo prese un attimo di pausa per riempire i polmoni.
“In qualche modo si è accorta che per terra c’era Gardenia, attaccata da quegli uomini, e si è precipitata da lei. E a sua volta anche Vulcano si è gettato nella mischia. Ora sono solo, sul tetto, ma sono vulnerabile”.
Camilla spalancò gli occhi; il cuore prese a batterle con forza tremenda, incontrando ancora lo sguardo di Marisio ancor più sorpreso.
“Luciano…”.
“Camilla, il primo scudo che ho posto è caduto”.
“Gardenia è qui con noi” fece, voltandosi e fissandola. Lo sguardo impaurito della Capopalestra di Evopoli era emblematico.
“Terrie deve andare via di lì!” esclamò la Campionessa.

Vulcano sfidava la tempesta.
Stringeva le corna del suo Houndoom, che fendeva l’aria del mattino con la stessa grinta che provava il suo Allenatore. Correva, il Pokémon, tenendosi alla larga dal gruppo di bastardi che stavano attaccando Terrie e Aaron.
E i Superquattro erano la sua famiglia; nessuno doveva toccarli.
Tra neve e sudore, i suoi capelli s’appiattirono.
Li vedeva, a distanza: quegli uomini stavano lottando contro Aaron e la sua Vespiquen, mentre un folto nugolo di loro colleghi era per terra, fronteggiando il Golem di Terrie.
Più indietro vi era Gardenia.
La radio urlava nelle interferenze, era sicuramente Luciano che lo richiamava indietro.
Ma se lo ripeteva costantemente: Terrie e Aaron erano la sua famiglia.
“Più forte, Bosko! Dobbiamo raggiungerle!” urlava al suo Houndoom. Che poi si chiedeva cosa diamine ci facesse lì Gardenia.
Il suo Pokémon era rapido, e raggiunse gli schieramenti avversari in pochissimo tempo.
Nottesferza!” ordinò, vedendo Bosko gettare contro uomini e Pokémon fendenti d’energia nera. “Entra! Lanciafiamme!”.
Riuscì ad aprirsi un varco nelle file avversarie, penetrando come una lama incandescente nella neve.

“Vulcano sta arrivando!” aveva esclamato Gardenia, quell’altra, guardando Terrie.
“Sì” sorrise lei. “Golem, Terremoto!”.
Gardenia indietreggiò impaurita, lentamente, vedendo la terra sotto i piedi della pattuglia in bianco spalancarsi.

“Che colpo fenomenale!” sorrise Vulcano, virando verso destra per schivare gli attacchi avversari.

“Ce la faremo” sorrise ancora Terrie. “Tranquilla, Gardenia”.
Allontanò di poco gli avversari, la Superquattro, recuperando le energie per voltarsi e assicurarsi che la più giovane non avesse bisogno di qualcosa.
E lo fece.
Ma fu proprio nel momento in cui i suoi occhi castani incontrarono quelli di Gardenia che una lama, tanto infida quanto sottile, penetrò la bocca dello stomaco.
E la lama era attaccata al coltello che proprio Gardenia aveva in mano.
Il sangue era bollente, colava dalla gola dell’anziana donna sulle mani di quella che, pochi minuti dopo, smontò dal proprio viso la maschera della Capopalestra di Evopoli.
Una lacrima scese lenta sulla guancia rugosa di Terrie, che ancora non si capacitava di ciò che era accaduto.
Maxus guardava con occhi spiritati la propria vittima, ritirando il coltello e affondandolo nuovamente nel cuore della donna.
“Muori…” sussurrò poi, con un sorriso divertito sul volto.
Il corpo di Terrie ricadde esanime nella neve, sporcandola di rosso.
E Vulcano era rimasto immobile, a guardare la scena.
“Figlio di puttana!”.

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