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Levyan - Nubian - 14 - La cena del cameriere


XIV
La cena del cameriere

Blue si svegliò di soprassalto. Aveva di nuovo sognato Vivalet. E anche Porto Alghepoli. Tutto insieme. Nel sogno, si trovava all’interno di un aereo che sorvolava una città, completamente inerme di fronte alla scena di cui aveva uno scorcio dal suo finestrino: l’enorme corpo di Rayquaza stava devastando palazzi e quartieri, stritolando edifici nelle sue spire e spazzando via intere strade con i suoi attacchi. E lei era immobile, limitata, in gabbia.
Green sembrò avvertire il movimento di Blue e aprì gli occhi ancora appesantiti dal sonno.
«Che succede?» le chiese.
«Nulla, è tutto ok...»
«Hai gli incubi?»
«Sì» rispose lei con un filo di voce.
«Da quanto... da quanto tempo non prendi le pillole?»
Blue si concesse una pausa di qualche secondo, prima di rispondere «quattro mesi».
«E’ la quinta volta in due giorni, che non riesci a dormire» si lamentò Green.
Il sonno che ancora lo annebbiava lo rendeva meno controllato e più diretto, nel manifestare i propri pensieri.
«Non voglio tornare a ingozzarmi di quella roba».
«Lo so, lo so... vieni qui, cerca di toglierti i brutti pensieri dalla testa» la supplicò Green, invitandola a sdraiarsi tra le sue braccia.
«Ok».
Blue si stropicciò gli occhi con il polso, accoccolandosi contro il petto del suo ragazzo. Tentò di chiudere gli occhi, di spegnere il cervello, ma tutti i suoi tentativi erano vani. Le grida agonizzanti delle persone, i ruggiti acuti del dragone, gli spaventosi crepitii del cemento.
Era tutto ancora lì.

Dal tetto dell’ospedale di Rupepoli, era possibile osservare tutte il candido panorama invernale circostante senza essere ostacolati da palazzi, grattacieli o torri. La città sorgeva su quell’altipiano geometrico e regolare, diverso dalla conformazione di tutta l’area montuosa circostante, irta di strapiombi, gole e insenature. Nell’aria gelida, quel panorama sembrava venir fuori da una cartolina, oppure da un wallpaper predefinito di un telefono Android.
«Penso sia il caso di pensare ad un piano B» propose Kalut.
“A proposito di?” chiese Xatu.
Il ragazzo detestava quelle domande idiote. Quello Xatu viveva sulla terra da migliaia di anni, aveva accompagnato l’umanità fin dal principio, poteva vedere contemporaneamente passato, presente e futuro... eppure si ostinava a far finta di non sapere come la conversazione sarebbe continuata, chiedendo precisazioni e ponendo domande, solo per far sentire a suo agio il suo protetto. Certo, una volta riflettuto su questo, Kalut iniziava a sentirsi stupido per essersi infastidito, Xatu gli stava facendo un favore, sarebbe stato strano parlare con un totem onnisciente che non può far altro che approvare e dare opinioni, poiché vede la realtà come fosse un film che conosce già a memoria.
«A proposito di Austropoli» precisò Kalut.
“Quante ne vuoi risolvere?”
«Tutte quelle possibili».
“Ricordami per quale motivo stai combattendo per questa causa tanto strenuamente, quando ti ho incontrato, un anno fa, stavi benissimo anche senza doverti immischiare in queste faccende”.
«Ero... era...»
Kalut non riuscì ad andare avanti.
«Maledizione, che domanda è? Dovrebbe farmi riflettere? Tu sai già tutto, non hai bisogno di chiedermelo» era infastidito.
“E’ qui che ti sbagli” quando lo correggeva, Xatu alzava il becco verso l’alto, era come un gesto di vanità “io conosco ciò che vedrò nel mio futuro, ma non significa che io abbia già previsto tutto ciò che farò nei prossimi anni, giorno per giorno, ora per ora”.
«Nel senso che, se non avessi fatto questa domanda...»
“Non l’avrei mai saputo” se fosse stato capace di parlare con il becco e non solo tramite la telepatia, si sarebbe schiarito la gola, “nel momento in cui decido di farti una domanda, non sto seguendo un copione. Io conosco la data della tua morte, Kalut, so cosa succederà ai tuoi amici in qualsiasi giorno della loro vita, so come sarà la terra tra trecento anni e chissà se sarò ancora qui, per quel momento... tuttavia, se non sono a conoscenza di un tuo pensiero e ti chiedo di illuminarmi, significa che non so ancora cosa stai per rispondermi, poiché non faceva parte del piano” sciorinò l’entità.
«Assurdo» commentò Kalut, che faceva sempre più fatica a capacitarsi dell’esistenza di quel Pokémon.
“La cosa ti stupisce?”
«No, mi rende solo più dubbioso» il ragazzo scuoteva la testa, strofinando il collo con la sciarpa che lo avvolgeva «insomma, da dove diavolo vieni, tu? Chi ti ha creato, ammesso che qualcuno lo abbia fatto? Chi ha elaborato questo disegno di cui parli? E perché hai scelto proprio me, come tuo protetto?»
“Come ti ho già spiegato, non esiste una risposta a tutto. O meglio, tutte le risposte esistono, ma alcune sono troppo lontane per essere raggiunte, anche per uno come me” spiegò lui “a proposito della mia origine, neanche io ne sono così sicuro, a dire il vero, ma sono certo che il disegno che io posso vedere realizzato nel futuro non è frutto di creazione o predestinazione, soltanto del semplice rapporto causa-effetto delle cose che sceglie di concretizzarsi in una via precisa piuttosto che nelle infinite alternative. Perché ho scelto te, beh, non è stata una scelta dettata dal caso. Un essere come te non nasce certo tutti i giorni. Ho sempre accompagnato uomini eccezionali nella loro vita, più e più volte nel corso dei secoli, ma tu sei il primo che riesce ad essere addirittura imprevedibile, per esasperare un po’ il termine”.
«Perché sono stato creato in laboratorio?»
“No, conosco altri esseri creati in laboratorio come Mewtwo o molti altri Pokémon artificiali e nessuno di loro è come te”.
«In che senso?»
“Tu sei stato creato in una provetta, ma non sei solamente figlio della scienza”.
«Sono anche figlio della fortuna?»
“Una specie” rise il Pokémon “è come se le tue azioni non seguissero perfettamente il disegno, come se tu fossi capace di modificarlo, senza riscriverlo completamente. In poche parole, se scoprissi da un momento all’altro che tu fossi dotato di un’onniscienza addirittura superiore alla mia e mi stessi ingannando dal primo momento, non mi stupirei”.
Kalut rimase stupito da quell’affermazione. Le cose erano due: o l’uomo, nel caso specifico Leonard Roland, creatore di Luna, lui e Zero aveva finalmente spodestato le divinità, con la sua invenzione, o qualche entità suprema aveva lanciato su di lui una benedizione... oppure Xatu era un buffone ridicolo.
“In ogni caso, non hai risposto alla mia domanda, perché fai tutto questo per loro?”
Kalut sembrò rovistare in un archivio mentale, temporeggiando per rispondere.
«Potresti direttamente leggerlo nel mio pensiero» rispose Kalut.
“Non leggo il tuo pensiero da mesi, ormai, sei molto più interessante se non so cosa hai in mente, anche perché i tuoi ragionamenti sono davvero astrusi” ribatté il Pokémon.
Kalut rise.
«Non so perché abbia preso a cuore questa causa... forse per analogia con il mio fratello artificiale, Zack. Oppure perché i membri della Resistenza mi avevano cercato per molto tempo e mi sembravano convincenti. Io volevo solamente divertirmi» si fermò per qualche istante «trovi che questa risposta sia banale?»
“Trovo che sia finta, evidentemente anche tu stesso devi ancora indagare a fondo nel tuo animo”.
«Non puoi aiutarmi, leggendolo tu stesso?»
“Sai bene che la telepatia non funziona così, i telepati non sono psichiatri due-punto-zero”.
Kalut non era deluso dalla risposta, scrollò le spalle e se ne fece una ragione.
«Comunque mi hai fatto riflettere, con quello che hai detto prima».
“A cosa ti riferisci?”
«Al concetto della tua onniscienza limitata».
“Limitata dalle mie scelte”.
«Potrei aver avuto un’idea grandiosa» esclamò, recuperando un po’ di entusiasmo.

«Ti stai riprendendo velocemente» notò Sapphire, concedendo a Ruby gli unici occhi dolci che mostrava una volta ogni sette anni.
«Forse il mio corpo è un po’ mutato, dopo aver tenuto le gemme per tanto tempo» ipotizzò lui, come fosse la cosa più normale del mondo, poggiando sulle coperte il libro che stava leggendo e togliendo gli occhiali che correggevano la sua vista ipermetrope.
Sapphire, nonostante lo preferisse senza, voleva bene a quegli occhiali. Le ricordavano tutti quei momenti in cui aveva osservato Ruby intento nei suoi lavori di sartoria. Quella che era rimasta per lei una fatica frustrante e incomprensibile, per lui sembrava la quintessenza dell’arte manuale. E i risultati si erano manifestati: i lavori partoriti dal suo lavoro erano stati apprezzati dai migliori critici e acquistati dalle maggiori etichette, portandolo alla decisione di fondare un proprio atelier ed affermarsi anche come stilista.
«Come stai?» chiese lei, pensando in ritardo a quante volte quella domanda gli fosse stata fatta nelle ultime ore.
«Credo di poter camminare» rispose Ruby.
«Davvero?»
«Sto bene, sul serio, dovrei riuscirci».
«Ok».
«Ok?»
«Ok».
Ruby sospirò, tamburellando con le dita sulla copertina di “Mr. Vertigo” che stava leggendo.
«Che succede?» le chiese dopo un interminabile silenzio.
«Niente» rispose lei, mordendosi l’interno della guancia e preparandosi alla prossima domanda.
«Sapph, non farmi insistere».
«No, insisti» fece lei a mezza bocca.
«Dimmi che hai» ripeté allora Ruby.
Sapphire lo guardò, con le labbra serrate.
«L’incidente deve aver fatto qualche danno che i medici hanno dovuto riparare».
Ruby la osservò coprirsi il ventre con la mano ed evitare il suo sguardo fisso negli occhi. Aveva già capito prima che Sapphire aprisse bocca.
«Dicono che non potrò avere figli».
Ruby non reagì immediatamente. Le prese la mano, la strinse, attese che l’atmosfera pesante che si era creata si diradasse naturalmente.
Poi mise anche la sua mano sull’addome di Sapphire, che la scansò subito, quasi ne avesse vergogna.
«Sai che la gravidanza fa ingrassare tantissimo?» esordì poi «e che le donne hanno un ormone particolare che le aiuta a dimenticare il dolore del travaglio per evitare di fermarsi al primo figlio?»
Ai lati della bocca di Sapphire nacquero due timide curve.
«Durante il parto c’è la possibilità di... inconvenienti, per così dire, intimi... capisci cosa intendo?»
La ragazza chiuse gli occhi, non potendo nascondere il sorriso.
«E le smagliature, il rischio di trombosi, l’astinenza da sesso, cibo crudo e alcool... potrei continuare tutto il giorno» sciorinava Ruby.
«Basta, ho capito» lo interruppe lei, agitando la mano.
«Non credo che tu valga meno per questa stupida ragione» concluse lui, con tono rassicurante.
Sapphire non seppe come reagire. Trovò strane le parole dette da Ruby, poco rassicuranti, benché positive. Volse lo sguardo altrove, sforzandosi mentalmente di trovare un altro argomento di conversazione. Avvertì la mano di Ruby avvicinarsi alla sua e stringerla affettuosamente. Lei vi affondò le unghie. Era il suo modo di fare, lo faceva quasi inconsciamente quando si sentiva a disagio.
«Vado a mangiare qualcosa» si congedò poi la ragazza.
«Non chiedi al malato se ha voglia di qualcosa?»
«No, la colazione te la portano le cameriere, non io» si chiuse la porta alle spalle.
Ruby sorrise, guardandola attraverso il vetro mentre si dirigeva a grandi falcate verso la caffetteria, sbagliando direzione e tornando sui suoi passi subito dopo.
Con un tempismo invidiabile, il cellulare di Ruby vibrò per un secondo. Lui lo prese e sbloccò lo schermo, leggendo il messaggio ricevuto.

Ho riunito quasi tutti, inizio a pensare che il tuo piano non è poi tanto male.
Ruby sussurrò un “perfetto” tra sé e sé, mettendo da parte il telefono.
Quindi portò le gambe fuori dal perimetro del letto, tentando di riprovare a camminare. Toccò il pavimento con un piede, poi con due. Si rese conto di fare più fatica del previsto. Mosse un passo, due passi, tre passi. Riuscì a raggiungere la maniglia della porta del bagno, la fece girare fino a percepire lo scatto del meccanismo. Entrò. Si nascose lì dentro per qualche minuto, recuperando il fiato che gli era venuto a mancare. Doveva rimettersi in sesto, c’era bisogno di lui, doveva rimettere a posto il suo mondo.
Dopo ciò che era successo con la Faces, nei due anni precedenti, aveva perso ogni speranza di ritrovare i suoi amici. E invece, i fatti erano andati diversamente. Sapphire lo aveva di nuovo accolto tra le sue braccia, gli altri Dexholder avevano ripreso a parlargli come un amico, o quasi. Allora era sorto il dubbio più grande: era veramente stato costretto a prendere le parti del nemico? Era davvero stato portato su quella via dal loro ricatto? O era diventato ciò che era diventato per la propria egoistica soddisfazione?
Forse non avrebbe mai trovato la risposta.
Durante il periodo di solitudine in cui la morte dei suoi genitori e il conseguimento della fama lo avevano catapultato, aveva maturato l’idea che i suoi amici fossero uniti solamente nel momento del pericolo. Red, Green e Blue non si sarebbero incontrati e non avrebbero fatto squadra, se non per combattere il team Rocket; Yellow non sarebbe mai stata accolta, se non avesse deciso di partire alla ricerca di uno scomparso Red; Crystal, Silver e Gold non avrebbero mai fatto amicizia, neanche se fosse comparso Arceus in persona davanti ai loro occhi, e in effetti era andata proprio così. Lui non avrebbe mai conosciuto Sapphire, se non fosse scappato di casa, se non si fossero ritrovati a lottare contro il Team Idro e il Team Magma. Stesso ragionamento per Emerald, con Guile Hideout.
Le loro vite erano come dei film: dei ragazzi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro si erano ritrovati a collaborare o a concorrere perché a qualcuno era venuto in mente di distruggere il mondo. Le loro affinità elettive erano subentrate in un secondo momento, quando ormai si conoscevano tutti troppo bene per non andare d’accordo, si erano salvati più volte la vita a vicenda, mettendo a rischio la propria.
E poi? E poi il film era finito, il nemico era stato sconfitto, lo schermo era diventato nero ed erano iniziati i titoli di coda. E di loro cosa sarebbe rimasto? Non si sa mai come continua la vita dei personaggi di un film, dopo la fine.
Una volta qualcuno aveva detto che l’unico senso della vita è proprio quello di trovare un senso alla vita. Loro lo avevano trovato, erano nati, cresciuti e vissuti per salvare il mondo. Emerald era anche morto, provandoci. E allora, una volta che il mondo fosse stato finalmente in salvo? Che cosa avrebbero dovuto farsene?
In quel momento, c’era bisogno di lui. Probabilmente sarebbe riuscito ad uscire vincitore anche da questa guerra condotta contro un nemico che sembrava invincibile. E poi? Cosa sarebbe successo?
Ruby fissava le proprie iridi vermiglie nello specchio. Se avesse smesso di stritolare il lavabo, molto probabilmente lo avrebbe distrutto, spaccandosi completamente le dita e le nocche.
Aveva voglia di organizzare una cena, una maledetta cena con i suoi amici, priva di piani malvagi, folli mitomani, pazzi conquistatori, dei leggendari e altre stronzate. Voleva un pezzo di quella noiosa normalità di cui tutto il mondo moderno sembrava avere paura. Era veramente questo che voleva? Riuscire a svegliarsi la mattina in un letto decente, non in un sacco a pelo infangato. Andare al lavoro, non a fermare un cataclisma. Fare dei figli, non allenare dei Pokémon per combattere contro il mostro di turno. Era il suo reale obiettivo?
Sarebbe mai riuscito a vivere senza guerra?

«Kalut mi ha contattato, vuole vederci al più presto» disse Green, asciugando i capelli castani con l’asciugamano bianco fornito dal B&B.
«Va bene» rispose Blue con aria assente, senza staccare gli occhi dal televisore.
Green notò la sua mancanza di attenzione. La ragazza aveva dormito poco e male, aveva fatto la doccia prima del suo uomo, si era messa un maglione dal volume abbondante e dei jeans scoloriti. Non aveva ricomposto la valigia, tanto sarebbero dovuti rimanere lì finché Ruby non si fosse rimesso. Fissava lo schermo del piccolo televisore sintonizzato sul telegiornale nazionale, ascoltando l’audio ovattato e giocando con un ciuffo di capelli bagnati che sfuggiva all’abbraccio dell’asciugamano che aveva messo in testa a mo’ di cuffia. Sedeva a gambe incrociate, il suo sguardo era vacuo, disperso.
Green l’avrebbe fotografata in quella posizione, con quella luce. Ma Green non era un artista. O almeno, non aveva mai scoperto di avere tale sensibilità. Quindi si limitava a pensare a che cosa potesse mai affliggere l’animo della sua donna, senza soffermarsi ad osservare la sottile bellezza dell’angoscia che le gettava un’ombra sul volto. Le venne in mente di rassicurarla, di dirle qualche parola dolce, di condividere il suo dolore. Le immagini di Austropoli ridotta alla legge marziale e segregata dal blocco terrestre e navale erano impressionanti, era incredibile pensare che stesse succedendo tutto ciò nella vita reale.
«Finisci di prepararti, dobbiamo muoverci» fece Green.
Blue, restia, scese dal letto e si chiuse in bagno. Dopo qualche secondo, si udì il phon entrare in funzione. Green rimase solo, al centro di quella stanza. Non aveva nulla da fare. E lui era uno di quegli uomini che necessitava di qualcosa da fare. Sempre. L’attesa lo corrodeva come un acido potente e inarrestabile.

Dall’altra parte dell’universo, un cellulare vibrava. Il cellulare si trovava in una tasca, la tasca apparteneva ad un paio di pantaloni cargo, i pantaloni cargo erano indossati da una ragazza dai lunghi capelli biondi legati in una sobria coda. Si trovava a Porto Alghepoli, all’interno della Zona Safari, stava medicando attentamente le ferite di un Linoone, tentando di disinfettare la ferita nascosta tra il suo pelo setoso.
Yellow aveva trovato il modo di occupare le sue giornate, evitando di vivere in quel malinconico ospedale, di fronte al muro del silenzio di Crystal e al sonno comatoso di Silver. Si era proposta come curatrice e medicatrice dei Pokémon del safari, aveva già fatto molta esperienza in quel campo e, sebbene i suoi poteri non fossero sempre efficaci come un tempo, aveva discrete capacità mediche e veterinarie e un buon curriculum a dimostrarlo. In quel modo, riusciva a pagarsi il soggiorno e a non dover passare ore e ore a fissare il vuoto, ponendosi domande alle quali non avrebbe trovato risposta e tentando di sorridere allo specchio.
Rispose al saluto del ragazzo che lavorava nell’interno, del quale non ricordava esattamente il nome, tanto era numeroso il personale di quel luogo, che ogni volta aveva il brutto vizio di studiarla in ogni suo particolare, soffermandosi sui suoi zigomi pronunciati e ben modellati o sul suo fondoschiena alto atletico. Dipendentemente dal punto di vista. Non le dava fastidio, semplicemente, non si curava di lui. Insomma, era appena uscita da una storia con Red, il Campione di tutto il mondo, non era pronta per posare gli occhi su altri ragazzi. Che poi, neanche era tanto sicura di essere uscita, da questa storia. Si erano lasciati? Si erano dati una pausa? Certamente, la sua situazione non era delle migliori. Lui aveva un problema, ma lei era l’unica a saperlo, Gold l’unico ad averlo scoperto.
Il telefono vibrò di nuovo, questa volta Yellow decise di posare disinfettante e tamponi, togliere i guanti e andare a vedere chi fosse a cercarla. Era da qualche giorno che stava nella quasi totale solitudine, non le avrebbe fatto male parlare con qualcuno.
Trovò due messaggi:

Yellow, sono Kalut
Ho bisogno di parlarti di persona, stasera mi troverò nei pressi dell’ospedale di Porto Alghepoli
Niente di nuovo, niente di che.
Rimase un po’ delusa, aveva sperato si trattasse di uno dei suoi amici, ma era impossibile, loro avevano cose più importanti da fare. E poi, non era neanche sicura di sapere se la odiassero o no, dopo averli deliberatamente abbandonati nel bel mezzo dell’azione, durante le vicende di Zero.
Digitò un ok e spedì. Almeno quella sera avrebbe potuto parlare con qualcuno che non fosse il suo collega di lavoro della Zona Safari o il medico dei suoi amici della terapia intensiva. Lavò le mani, indossò un altro paio di guanti e si rimise a lavoro.

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