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Couragers - The Cooldown


T H E     C O O L D O W N
una_storia_di_linnea_e_andy_black_per_il_courage_community_day.

Avvertenze: la storia è sostanzialmente una ChosenShipping. Il rating è arancione ed è ambientata in AU, a Mogania. Gli elementi casuali che ci sono stati assegnati sono martello e pesce rosso.
Presenza di linguaggio scurrile ed elementi di violenza.
Per le persone impressionabili è consigliata la presenza dei genitori.




- Mogania. Due giorni al cooldown.

“… Nessuno lo sa. Nessuno sa mai niente in questo merda di posto…”.
“Non sappiamo come uscire da qui?! Ma stiamo scherzando?! Ci deve essere qualcosa che possiamo fare!”.

Blue camminava rapida tra i vicoli di Mogania, avvolta nella pelliccia nera che aveva trovato nell’armadio. Sentiva le parole di qualcuno che ancora non aveva perso le speranze, sfilando velocemente avanti, lungo Pryce Street.
Era mezzanotte, o forse l’una. Se non avesse guardato il piccolo orologio che le cingeva il polso non lo avrebbe mai capito. I viottoli che percorreva si snodavano negli spazi stretti tra una casetta e l’altra. I vecchi palazzi della città lacustre avevano tutti le porte e i tetti rossi, ed erano stati costruiti centinaia di anni prima, quando quel posto era uno degli snodi commerciali più importanti per raggiungere le miniere presenti lungo la via gelata. Difatti lì erano tutti figli o nipoti di minatori.
Almeno la gran parte.
Erano passati diversi anni da quando, oltre quei tetti rossi, non appariva più l’orizzonte.

“Come cazzo vorresti superare quella cupola di ferro?!”.
“Scaviamo! Mettiamo una bomba! Facciamo qualcosa!”.
“Vuoi davvero che le Truppe Di Ghiaccio ci ammazzino?! Sai quanto sono spietati!”.

Blue alzò gli occhi, guardando le pareti nere che si stagliavano per metri e metri sulla sua testa, curvandosi poco prima di raggiungere lo zenit.
Era acciaio.
Acciaio puro, duro e spesso.
Mogania era imprigionata in una trappola di ghiaccio, dato che lì faceva sempre freddo. Il Conte aveva deciso che in quel posto dovesse essere sempre notte.
Sempre inverno.
Un rumore incessante ormai faceva parte della vita di tutti gli abitanti di Mogania. Era un ronzio fastidioso e penetrante, capace di far impazzire, causato dai motori degli oltre duecento impianto di refrigerazione, che gettavano all’interno della cupola aria congelata.
Tutti lì avevano imparato a parlare a voce più alta e a coprirsi quanto più possibile. Mogania era diventata un igloo di ferro.

“Rassegnati”.
“…”.

Blue aveva perso l’abitudine di sperare.
La sua vita era un ciclo continuo di sospiri lascivi e uomini che la guardavano molesti, spogliandola con lo sguardo.
Alla fine di Pryce Street la via si allargava: era appena arrivata nel quartiere ricco di Mogania, dove viveva chi deteneva la gran parte dei soldi rimasti. Lì le luci non erano soffuse, anzi, i lampioni illuminavano a giorno i marciapiedi rivestiti di marmo.
Qui e lì camminavano giovani abbienti accompagnate da donne bionde e avvolte in pellicce costosissime.
Non come quella di Blue. Ma tanto nessuno lo sapeva.
Era bella, quella dagli occhi del colore del mare, e attirava l’attenzione di tutti coi suoi tacchi alti e il vestitino attillato. I capelli castani erano legati in una coda elegante e la frangetta a stento le copriva lo sguardo.
Deliziosa, lei, proseguiva per la Route n.1 e ancora oltre, in direzione nord.
Sulla destra c’era la Palestra di Alfredo. Un brivido le percorse l’intera lunghezza della schiena e quindi decise di accelerare, salendo una piccola scalinata e ritrovandosi davanti al plesso residenziale. Lì le luci erano più distanti tra di loro e lasciavano coni d’ombra in cui i vialetti delle vecchie case abbandonate sparivano, assaliti dall’erba alta.
Non tutte quelle abitazioni erano vuote. Qualcuno le abitava ancora ma doveva necessariamente fare i conti con le frequenti rapine e le minacce di chi viveva al di fuori. In un mondo dove i poveri erano ancor più poveri di prima la fame costringeva i deboli a imbracciare armi e coraggio.
E spesso venivano trovati morti, in qualche canale lungo la Route n.12 e Miner Street.
Spesso erano vittime di giustizia privata, ladri sparati in petto dai proprietari delle case in cui accedevano, altrettanto spesso erano gli stessi proprietari che avevano sbagliato mira.
Altre volte erano semplici barboni, che avevano avuto la sfortuna di ritrovarsi davanti a qualche soldato annoiato delle Truppe di Ghiaccio. Blue ricordò quando tre uomini in divisa azzurra, mitra alla mano, costrinsero a ballare una vecchia zingara senza un piede, prima di crivellarla di colpi e lasciarla per terra, sanguinante.
Mogania era diventato il parco giochi di quelle bestie.
Blue, d’altro canto, era rimasta intrappolata lì dentro, svuotata d’ogni voglia di tenere la testa alzata da quando aveva visto Silver morire.

*

Ricordo le giornate all’aria aperta, quando il sole ci baciava la pelle, ci abbronzava.
Il sole, Silver.
A me manca il sole.
E la luce della luna. Ricordi quando eravamo piccoli?
Ricordi quando scappavamo dalle nostre stanze, aprivamo una finestra e ci sedevamo sui bordi, uno accanto all’altro.
Vedevamo il lago, da lì. Vedevamo il cielo.
Vedevamo la notte diventare giorno.


Che fuori ci fosse il sole o la pioggia nei corridoi della Palestra faceva sempre freddo. La pelle di Blue sembrava ormai destinata a rimanere di quel malaticcio colore cianotico, dalle ginocchia nodose bluastre agli occhi azzurri incavati nel volto, nascosti dietro ad una maschera. Lei stessa era diventata gelida, e se non fosse stato per le piccole nuvolette di condensa che uscivano dalla sua bocca ritmicamente sarebbe potuta sembrare morta. Fino a poco tempo prima le sue guance erano state paffute e rosse, e le sue spalle ricoperte di efelidi; Biancavilla le mancava davvero tanto... Per un po' di tempo aveva pensato che sarebbe rimasta così, congelata nel tempo, le emozioni strozzate ed un sorriso demoniaco di plastica bianca sul volto.

Nessuno entrava ormai più nella Palestra di Mogania. Il paese sapeva ma nessuno parlava, quell'edificio era invisibile e maledetto - anche solamente rivolgergli lo sguardo incuteva timore. Chi vi entrava non ne sarebbe uscito mai più, si diceva.
Ed era vero, perché solo i Masked Kids vi erano entrati di recente.
Alfredo non usava mai l’ingresso principale, quindi quando si spalancò quel giorno, Blue osservò con curiosità; trascinava un bimbo per la chioma di capelli rossi, lui era minuscolo e paffuto, muto, e dalla parte inferiore della sua maschera tante piccole lacrime continuavano a cadere - eppure i suoi occhi erano duri, statici. Non si guardava intorno e non strillava, né era pietrificato dalla paura. Quando Alfredo lo lasciò ricadere sul pavimento impolverato egli barcollò in piedi e fissò i presenti negli occhi, uno per volta. A stento aveva tre anni, ma ostentava un'aura di severità inquietante, il suo silenzio sembrava quasi un giudizio. Lui era l'ultimo componente della squadra elitaria di Mask of Ice; la seconda metà del team di Blue in un'organizzazione di coppie, e un inquietante esperimento.

Alfredo credeva che avrebbe potuto creare dei veri e propri soldati privi di sentimenti, se avesse cresciuto individui con certe predisposizioni, in un certo modo.
A Blue era stato detto di trattare il nuovo arrivato con freddezza; un po' le faceva rabbia, tutte le altre coppie avevano il permesso di mantenere rapporti amichevoli tra di loro.
Non sapeva cosa fare con Silver. Era un bimbo troppo piccolo, muto, la guardava da dietro la maschera con quegli occhi glaciali.
E poi un giorno realizzò: era come lui. "Un individuo con certe predisposizioni", un esperimento; per questo anche lei era stata trascinata a Mogania con la forza. Quella realizzazione le fece paura, cosa poteva avere in comune con quello che per lei era solo un fantasma? Negli occhi argentei del bimbo leggeva un'oscurità particolare, forse anche lei ne custodiva una uguale nel suo cuore - col senno di poi la cosa faceva sorridere.

Passò un anno e la voce di Silver restava ancora ignota, ogni tanto registrava un mormorio diretto ai suoi Pokémon, sempre sotto lo sguardo attento di Alfredo.
Lo aveva ignorato sino ad allora, lui era poco più che un'ombra dagli occhi chiari che la seguiva per i corridoi della Palestra. Poi, una mattina, le aveva toccato un braccio con la sua mano gelata, gli occhi fissavano i suoi, e le mani erano protese in avanti: le stava offrendo un mazzetto di fiori. Blue non seppe mai dove li avesse raccolti (dalla pianta di erbacce parassita che era nata tra le crepe di una finestra, sul retro, dove Alfredo spesso lo portava - lui non conosceva fiori più belli di quelli, di altri non ne aveva memoria, e Blue era bella: il suo cervello da bambino fece l'associazione da sé).
Per la prima volta dopo due anni Blue tornò una bambina, le mani di Silver erano fredde, i suoi occhi erano freddi, ma a contatto con lei il calore umano che avevano perso tornava alla superficie.


"Sorellona" bisbigliò dietro la maschera, la prima di molte altre volte.

*

Il Lago d’Ira era davanti a lei.
Il lungolago era buio; era la strada che girava attorno a quella pozza che non rifletteva la luce della luna. Lì rimase a fissare la superficie dell’acqua, quasi immobile, quindi sospirò.
Malinconia. Brutti pensieri.
Attorno al lago vi era il resto di quel bosco rigoglioso che un tempo cingeva lo specchio d’acqua, diventato poi il cimitero di alberi bruciati dal freddo. Per terra c’erano solo rami secchi e sterpaglia, e sulla superficie del lago spesso affioravano i Magikarp che non erano riusciti ad adattarsi.
Levò la pelliccia e l’appoggiò al bordo della balaustra che aveva davanti, quindi si voltò alla sua destra e fece cenno col capo a due donne che erano lì già da qualche ora.
Erano due puttane.
Proprio come lei.

A detta delle sue colleghe, Blue era strana. Sì, perché era la più bella in quella manica di disperate e morte di fame, con la pelle candida e tutti i denti in bocca.
E profumava di buono. Sembrava una principessa e chiunque arrivasse sulle rive del lago finiva per fermarsi quando incontrava lei, e se non la vedevano chiedevano dove fosse la ragazza dagli occhi blu e il neo sul seno destro.
Non parlava mai con nessuno, Blue. E costava pochissimo.
C’era qualcosa che non andava.
Inoltre lavorava soltanto con un cliente per serata, quasi come se lo facesse per diletto.
Tutte, lì, potevano riconoscere che fosse fuori luogo tra le puttane. Lei sarebbe potuta essere la moglie del Conte, o una ricca ereditiera nella parte alta della città, più vicina al tetto della cupola.
Avrebbe potuto tranquillamente vivere in una casa calda, e magari insonorizzata, e avere cibo fresco tutti i giorni.
Avrebbe potuto convincere i soldati a farla uscire da quel posto.
Avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, e invece si limitava a portarsi a casa i clienti per pochi spiccioli.
Quella sera non passò molto prima che un uomo di mezz’età si presentasse davanti a lei.
Indossava un cappotto beige molto lungo, di panno, che tuttavia non riusciva a nascondere la pancia grossa.
Era quasi calvo, e i pochi capelli che ricoprivano quella che dieci anni prima era una chierica erano del tutto bianchi.
Non aveva barba ma grossi baffi candidi sotto al naso. Dietro un paio di spesse lenti si nascondevano due piccoli ma vispissimi occhi neri.
“Ciao, splendore. Sempre trenta, come l’altro giorno?”.
Blue si limitò ad annuire, sorridendo a mezza bocca.
L’uomo sorrise e ingoiò una pillola azzurra.
“Per quando saremo da te avrà fatto effetto. Andiamo”.
La tirò per mano e la portò su di una lussuosissima macchina nera. Si sedettero entrambe sui sedili posteriori e l’autista cominciò mise in moto.
Lui le sorrise gentilmente e abbassò lo sguardo.
“Ricordami l’indirizzo”.
“Sulla trentaduesima”.
“Civico otto, vero?”.
Blue sospirò. “Civico otto”.
“Parti, Marlon” disse quello. L’uomo al volante annuì e alzò il vetro oscurato in mezzo.
L’aria che usciva dai bocchettoni era bollente.
L’uomo sorrise e aprì il cappotto.
“Come ti chiami?”.
“Crystal” rispose lei, rapida.
Quello annuì. “Me lo dicesti già, hai ragione”.
La mano di quello lentamente toccò la sua, accarezzando poi il polso e scivolando sul sediolino; raggiunse la coscia.
Blue sospirò ma forse l’uomo lo interpretò come un gemito, dato che la mano affondò tra le gambe della donna.
“So che dovrei aspettare di arrivare a casa tua ma… Non resisto…”.
Quella lo guardò per un attimo, poi fissò la mano tra le sue gambe. Infine voltò il viso verso il finestrino.

Pochi secondi ed erano a casa sua.
Sempre ordinata, sempre profumata. Il letto era il protagonista di quella mansardina ben riscaldata, proprio al centro della sala.
Lui si levò il giaccone e Blue glielo prese immediatamente, appendendolo al muro.
“Adoro il tuo appartamento. Certo… è un po’ piccolo…”.
“Basta, per quel che devo fare”.
La risposta fu netta, come un taglio. La donna smontò la pelliccia e la buttò su di una sedia, e con il suo elegante abitino nero avanzò verso il letto.
I tacchi rimbombavano sul pavimento di cotto di quella vecchia mansarda, fino a quando quella non si voltò.
“Possiamo parlare un po’ prima di fare sesso, non trovi?” domandò quello, lisciandosi i pochi capelli che aveva sulla testa.
“Non hai pagato per parlare”.
“Quanto costa, parlare con te?” domandò lui, sorridendo e quasi sfidandola.
“Non farmi perdere tempo”.
Quello sospirò, sconfitto, abbassò il grosso testone verso il basso e portò le mani avanti.
“Va bene, va bene, hai vinto tu… Mi spoglio”.
Blue sorrise. “Faccio io”.
Lo tirò a sé, spostandosi un po’ di lato, accanto alla finestra. Slegò il nodo alla cravatta e poi sbottonò lentamente la camicia, mentre le mani di quello fremevano, tastando le morbidezze del corpo della donna.
Lui era nudo, poco dopo lo era anche lei.
“La pillola ha fatto effetto” ribatté quello, mostrando una modesta erezione.
Blue allora sorrise, facendo ciò che doveva fare, girata di spalle, appoggiata al vetro della finestra e facendo in modo che tutta Mogania potesse vederla svendere ciò rimaneva del suo animo.
E nessuno riuscì a guardare quella scena, tranne il dirimpettaio.
Lui rimase a fissarla per tutto il tempo.

*

Io e te non abbiamo mai avuto la possibilità di crescere, Sil.
Non abbiamo mai avuto l’opportunità di vedere i nostri sogni realizzarsi.
Io non ho mai chiesto nulla dalla vita ma, se c’è una cosa che vorrei, che vorrei davvero, sarebbe rivederti almeno un’altra volta qui accanto a me.
Perché a me manchi, fratellino.


I piedi scalzi di Blue erano silenziosi.
Dalle finestre prive di infissi la luce del cielo notturno veniva proiettata sulle pareti, grandi come lei non era.
La stanza di Silver era uno sgabuzzino all’ultimo piano, dove la porta di legno non aveva serratura e bastava semplicemente spingerla per entrare. Lui dormiva sul materasso spoglio, unica cosa presente nella stanza, nella quale la luna grandissima radiava insistente tramite quello che era poco più di uno sfiatatoio per l’aria, una finestra grande quanto un mattone posta troppo in alto per poterci arrivare e guardare fuori.
Quella sera s’era addormentato piangendo.
A loro non era permesso avere effetti personali ma a Blue piaceva in rischio, truffava i ragazzini che si spingevano sino ai confini della proprietà di Alfredo per cercare Pokémon forti con cui allenarsi, e collezionava quello che riusciva ad afferrare, sfere rotte, biglie, portachiavi.
Solo per il gusto di farlo.
Quando gli altri bambini mascherati avevano fatto la spia Blue era stata presa dai ragazzi più grandi e portata davanti ad Alfredo che, con gli occhi nascosti dalla maschera, l’aveva guardata con disappunto.
A lei delle punizioni corporali non importava, le aveva detto; avrebbe dovuto farle davvero male per farle capire la lezione.
“Oppure…”
Aveva volto lo sguardo a Silver, sempre immobile, con gli occhi vuoti. Gli aveva fatto cenno di avvicinarsi al tavolo, e quando gli fu davanti ordinò a Sham, una delle ragazze più grandi, di andare a prendere qualcosa da fuori.
Rientrò con un congegno di ferro arrugginito tra le mani.
“Romperti le ossa sarebbe sconveniente, non è vero, Blue? Proviamo un metodo alternativo prima. Non preoccuparti, non sono un tiranno.”
Si voltò verso Silver, che sì aveva riconosciuto l’oggetto sul tavolo, eppure non tradiva emozione alcuna.
“Silver…” fece Alfredo, il suo corpo si muoveva con lentezza mentre portava la mano sui capelli del bimbo, accarezzandolo quasi con riverenza “… aiutami a impartire una lezione alla tua compagna.” Gli occhi argentei del piccolo la fissarono un istante, poi ritornarono a non guardare niente in particolare.
“Proviamo con tre, alla prossima, Blue, dovrà farne dieci. Tutto da solo”
“No!” urlò lei. Carl, un altro del gruppo dei grandi, la bloccò alle spalle.
Silver rimosse uno dei suoi guantini e lo rimise in tasca, bloccando lentamente la manina nel vano dell’oggetto, senza protestare.
“No!” ripeté allora, strattonando il ragazzo che la bloccava senza riuscire a liberarsi.
“Fai da solo” continuò quindi Alfredo.
“No! Silver, fermo!”.
E lo fece: colpì con forza la leva, l’unghia sul suo indice si staccò quasi con facilità. Il rosso emise appena un gemito. Gli occhi di Blue piangevano eppure lei non se ne accorgeva.
Cambiò il dito bloccato dalla leva.

Crack.

A quel punto un conato di vomito lo costrinse a voltarsi, con una mano ancora bloccata e l’altra a rimuovere la maschera. Sputò bile sul pavimento.
Ancora, era muto.
C’era silenzio, nella grande sala. Tutti guardavano il piccolo, Blue compresa, con occhi terrorizzati.
“Continua con l’ultima” disse Alfredo, sentendo sogghignare Carl, che intanto stringeva una più che terrorizzata Blue.
Aveva perso la sicurezza, Silver. Sembrava avesse avuto qualche ripensamento prima di spingere la leva, con la piccola manina guantata che tremava.
“Forza! O la uccido adesso!”.
Lui alzò il volto e la guardò, quindi sospirò e, rapidamente, abbassò la maniglia; una volta fatto di colpo sembrava esser di nuovo capace di respirare.
Con tre dita insanguinate, Silver corse a stringerla, schiaffeggiando il braccio di Carl che la lasciò subito dopo.
Quella si piegò su di lui, piangendo.
“Sorellona, sto bene… Non piangere”.
Se Blue avesse rimosso la maschera del ragazzino lo avrebbe visto sorridere.

Ma quella sera si era addormentato piangendo.
Karen le aveva detto che non c'era differenza tra il rompersi un osso e lo strapparsi un’unghia, il dolore era lo stesso, e definiva Silver un mostro per averlo fatto così facilmente.
“Non è vero…” aveva sussurrato lei, tra i denti, sapendo che in realtà quello era stato solo un gesto di fedeltà: i suoi occhi erano solo pieni di lei, le sue orecchie erano solo piene di lei; Blue doveva ripagarlo proteggendolo, invece, sentiva quasi di averlo sfruttato.
Lei era riuscita a sgattaiolare fuori dalla sua stanza e arrivare all’ultimo piano. Aveva dormito, ma solo un po’; aveva rivissuto in sogno la scena in cui Silver era ancora lì, a premere quella leva, infinitamente, ma era sempre alla seconda unghia e continuava disperatamente, inutilmente, bloccato come in un loop temporale. Si accucciò accanto a lui, lo strinse e richiuse gli occhi, inalando il profumo dei suoi capelli rossi.

*


- Mogania. Un giorno al cooldown.

Lo sentiva, il vetro della finestra era freddo, ci spingeva la fronte contro.
Il suo corpo danzava armoniosamente sotto le spinte di un uomo che non conosceva, che aveva pagato a buon prezzo l’espressione estasiata che aveva sul viso.
La cosa non le serviva neppure. Era convinta che, anche senza sfoggiare l’intero campionario di mugolii e gemiti avrebbe lo stesso riscosso il successo che aveva, sul Lago d’Ira.
Questo perché era la più bella dell’intera Mogania.
Guardava di fronte a sé, nella casa con le luci accese dall’altra parte di Pryce Street, sperando che lo scimmione che le stringeva troppo forte la vita non decidesse di prendersi libertà che non doveva.
Eppure continuava con la recita, perché le serviva così.
Spinse il sedere contro il bacino dell’uomo sentendo la debole erezione di quello addentrarsi sempre di più nel suo corpo ma senza essere colta da nessun fremito.
Ma Percival Perkins, tale era il nome dell’uomo che l’aveva prelevata con la sua Ford blu, non lo avrebbe mai saputo.
Vedeva soltanto le fossette di venere al termine di quella schiena infinita, e le natiche morbide che gli rimbalzavano sulle cosce.
Se avesse saputo lo schifo che provava per lui, probabilmente il cazzetto barzotto dell’uomo avrebbe battuto in ritirata e Blue avrebbe dovuto restituirgli i soldi.
Quei soldi che a lei neppure interessavano.
Il suo scopo era mostrarsi, arrapata e arrapante. E quindi gemette ancora, più forte, spingendo i seni abbondanti contro il vetro; era totalmente schiacciata dal corpo dell’uomo che la stava possedendo.
“Continua…” sussurrò, sperando che la sua esibizione portasse i frutti desiderati. Sorrideva ipnotica al nulla, oltre la finestra che aveva davanti, osservando la strada ma senza concentrarvisi troppo, e vedendola sporca e deserta, spazzata dalle freddi correnti dell’impianto dell’areazione.
Percival diceva qualcosa, emettendo grugniti mischiati a frasi sconnesse e offensive, che nascevano erotiche ma morivano patetiche tra i suoi baffetti scuri.
Rabbrividiva schifata, la donna, sentendo le gocce di sudore dell’uomo caderle sulla schiena; lui ci credeva davvero, al fatto che Blue fosse una partecipante attiva del suo amplesso, tant’era vero che gemeva e urlava.
Sembrava impegnarsi a sua volta, e pareva le piacesse. Quasi non gli risultava strano che una donna giovane e così bella avesse davvero interesse nel cogliere i frutti del suo corpo vecchio e slabbrato.
Percival pensò che fossero i trenta dollari meglio spesi di tutta la sua vita.
Blue, invece, vide l’ombra alla finestra di fronte.
Fu allora che accelerò, spingendo ancor più forte contro il bacino del cliente e sentendone le mani stringerle i fianchi.
“Piano…” sussurrava l’altro, ansimando, ma Blue inarcò la schiena, allargando le cosce e continuando imperterrita a martellare su di lui.
Dopo ogni gemito c’era un sospiro, e dietro ogni sospiro c’era l’immagine gelida dell’uomo con la maschera, dietro le sue palpebre ombrettate.
Gli occhi si chiudevano, si aprivano, l’uomo di fronte era rimasto fermo a godersi lo spettacolo, come faceva ogni sera.
“Piano!” urlava l’altro, che voleva che i suoi trenta dollari durassero un po’ più dei tre minuti di paradiso che aveva pagato.
E invece tutto si risolse in un preservativo pieno e in una stretta di mano.
“Arrivederci” fece Percival. “E complimenti. Sei bellissima”.
“Anche tu. Buonanotte” rispondeva Blue, come ogni sera, poi sbatteva la porta, dava tre mandate e correva sotto la doccia.
Avrebbe voluto che a lavarle l’onta dalla pelle fosse acido, e non acqua calcarea che usciva a tentoni dalla lancia della sua doccia.
Prima di andare a dormire, come ogni notte, controllava se le luci nella casa di fronte alla sua fossero spente.
Diede la buona notte all’ombra che la osservava fingere e s’immerse in un caldo sonno ristoratore.

 *

E poi mi manca la leggerezza che riuscivamo a cogliere nelle notti di pioggia, quando qualche goccia riusciva a entrare dalle feritoie nel muro e ci bagnava i piedi.
Quando accadeva a me io ritraevo le gambe.
Quando accadeva a te, no. Quando succedeva, tu sorridevi.


Da quando la cupola aveva coperto il cielo di Mogania la sicurezza in Palestra era diventata molto più facile da aggirare. Blue non si curava più di nascondersi mentre di notte raggiungeva suo fratello Silver. Quella sera in particolare le sue gambe nude da ragazzina terminavano negli stivali da trekking sporchi, ma lei era sempre leggerissima; Silver la aspettava seduto contro il muro, negli anni quella stanza non era mai cambiata.
“Mettiti le scarpe” gli aveva bisbigliato all’orecchio, e lui l’aveva guardata interrogativo mentre affondava i piedi negli anfibi; l’aveva seguita giù per le scale antincendio. Nella sua tasca pesava la loro libertà.
Le chiavi tintinnavano, dalla sua tasca scucita; a Silver non piaceva togliersi la maschera, ma la rimosse, perché gli sembrava che tenerla gli impedisse di vedere davvero ciò che esse significavano. Fu l’ultima volta in cui Silver indossò quella gabbia sul volto. Non vi fu nessuna fuga rocambolesca, nessuna uscita di scena spettacolare, una porta ed un recinto da scavalcare era tutto quello che li tratteneva dal mondo esterno; e Blue non sapeva come avrebbero fatto.
Era stato più difficile prendere la decisione di scappare che farlo per davvero, ma una volta che la boscaglia fuori dalla proprietà di Alfredo si era diradata, e loro avevano smesso di correre solo per un istante, e vedeva i capelli di suo fratello che ricadevano scomposti sul suo volto, i suoi occhi spiritati e i polmoni che bruciavano, Blue capì che ne sarebbe sempre valsa la pena, e che avrebbe protetto la sua unica famiglia sotto quella cupola.
La semplice esistenza di quel ragazzo aveva scombinato il suo destino, e Blue gli avrebbe reso onore. Avrebbe fatto in modo che il mondo sapesse del peso che aveva avuto la sua anima sulla Terra.

*


Mogania. Il cooldown.

“Forza, troia!” urlava lui. Si chiamava Maxwell e aveva i brufoli sul viso.
Era poco più che un ragazzino, forse aveva sedici anni ma giurava di essere maggiorenne.
Davanti alla vetrata della sua stanza, Blue era inginocchiata davanti a lui, lavorando con le labbra attorno a quell’erezione acerba.
Più erano giovani meno erano educati, più erano vecchi, più erano pervertiti; forse era la bellezza dell’eruzione ormonale a trasformare un normale pompino nella più grande trasgressione mai esistita.
Che poi a Blue giovani o vecchi non faceva differenza.
L’importante era vincere la partita.
Si voltò, vedeva la luce accesa nella casa dirimpetto e l’ombra che si stagliava davanti alle tende.
“Sei pronto…” sospirò poi, indossando un sorriso a mezza bocca, un po’ divertito e un po’ amaro.
Si sedette sulla mensola di marmo davanti alla vetrata e spalancò le gambe, spostando lo slip.
“Vieni” disse.
Maxwell sorrise e la penetrò con foga. Lei rovesciò al testa indietro e gemette, sentendo il ragazzo scoprirle i seni.
Aveva ragione, erano suoi per tutto l'amplesso; li aveva pagati rubando i soldi dal cassetto delle mutande di sua madre.

Durò giusto un minuto, svuotandosi dentro di lei.
Il ragazzetto si accasciò contro il suo seno, scivolandole fuori dal corpo e respirando, sudaticcio.

Quando se ne andò, Blue sospirò silenziosa.
“Un ragazzino…” disse tra sé e sé, avvicinandosi al tavolo della cucina. Guardò i trenta dollari, tre banconote da dieci e sospirò, prendendoli e avvicinandosi al piccolo cassettino centrale della credenza di legno.
Li stipava lì.
Non ne aveva molti, del resto non si faceva pagare tanto.
Aveva fame, e intanto si chiedeva quando tutta quella faccenda sarebbe finita. Si voltò, guardando stanca verso la finestra di fronte.
L’ombra dell’uomo era ancora lì. Si chiedeva quando quello avesse preso il coraggio a due mani e si sarebbe presentato da lei.
Si sistemò, lei, ancora in mutande e reggiseno. Lo guardò e poggiò una mano sul vetro.
Lui fece altrettanto.
La vedeva.
Forse non serviva essere ancora provocante; aveva già mostrato ciò che poteva offrire a quell’uomo.
Forse bastava soltanto fargli capire che lo stesse aspettando.
Si voltò verso la porta e si mosse lentamente. L’uomo la vide passare da una finestra all’altra, per poi aprire la porta. Dopodiché torno indietro, ripoggiando la mano sul vetro.
L’ombra era ancora lì.
Si chiedeva, spesso, se anche lui la vedesse soltanto come un’ombra. In quel caso, tutti gli sforzi atti a mostrarsi davanti al vetro sarebbero stati vani.
Non lo sapeva. Eppure lui era sempre lì a guardarla.
“Vieni qui… Edmund, ti prego. Vieni da me”.
Alzò anche l’altra mano, vedendolo imitare il gesto.
Forse l’aveva catturato.
Indicò con la mano la porta, quindi levò il reggiseno e lo appese alla maniglia della finestra, indietreggiando e stendendosi sul letto.
Furtiva, vide che l’uomo, poco dopo, non era più lì.
“Forse ce l’ho fatta… Dopo tanti anni ce l’ho fatta…”.
Allargò le braccia, cercando di raccogliere quanto più calore potesse dalla sua casa. Nelle vecchie tubazioni l’acqua calda correva rapida ma le sue braccia, le sue cosce, la sua pancia erano freddi.
Freddi come quel luogo.
Forse sarebbe uscita da lì, l’indomani.
Serviva soltanto che Edmund Holm si presentasse davanti a lei e la sua anima sarebbe stata salva.
Gli occhi di Silver le parevano tatuati all’interno delle sue palpebre: chiudeva gli occhi e li vedeva, quei profondissimi dischi argentei in grado di leggere dentro di lei.
L’unico sguardo dal quale avrebbe nascosto il suo corpo.
“È permesso?”.

La voce di Edmund Holm era sempre la stessa.
Non era mai cambiata, in tutti quegli anni, assieme allo sguardo ceruleo dell’uomo buono.
Le rughe avevano sporcato il suo volto, ai lati della faccia e sulla fronte, mentre la barba folta che la ragazza ricordava portasse s’era ridotta a un pizzetto sale e pepe, canuto sul mento.
Un comunissimo uomo di mezz’età, che in quel momento era la persona più importante della vita di Blue.

“Avanti…” disse Blue, con voce suadente. Il cuore le batteva.
Si stese sul fianco, stringendo le braccia e facendo sembrare esagerato il suo seno.
Quello apparve nel suo appartamento, entrando con lo sguardo basso e la coppola a coprirgli le stempiature.
“Chiudi la porta” disse Blue, sorridendo dolcemente.
“Sei bellissima” fece lui, eseguendo. “Io… ti vedo ogni sera dalla mia finestra”.
“Anche io. Ho desiderato spesso di poterti avere qui con me”.
Quello sgranò gli occhi, incredulo, mentre guardava quella dea stesa seminuda davanti a lui.
“Davvero?”.
Blue nascose il nervosismo dietro un sorriso ammaliante. Si alzò leggera come una piuma, quasi pareva fluttuasse a mezz’aria.
Prese l’uomo per mano e lo avvicinò al letto, smontandogli da dosso il cappotto di pelle di renna marrone, sdrucito e consumato sui gomiti. Lo gettò per terra, le chiavi al suo interno tintinnarono.
“Quanto ti prendi?”.
“Trenta” rispose lei, baciandolo sulle labbra. Quello poggiò lentamente le mani sulle sue braccia e sentì la lingua della donna penetrargli nella bocca.
Era eccitante.
“Io… io non ho trenta dollari ora, con me…”.
Blue lo baciò ancora. Non gli interessavano i soldi.
“Quanto hai?”.
“Dieci dollari e qualche cent”.
“Andranno bene…” disse, leccandogli il collo. Le mani sottili della donna andarono a sbottonare minuziosamente la camicia di Edmund, bottone per bottone, fino a mostrare la canottiera bianca.
L’uomo indossava una catenina d’argento, un crocifisso.
Levò la camicia e la gettò per terra, accanto al giubbino, quindi si fece condurre dalla donna fino a una sedia, dove quello si sedette.
Blue lo spogliò poco dopo.
L’orologio segnava le due e qualche minuto, quando lui aveva deciso di stenderla sul letto e affondare il volto nel suo seno.
Alle cinque e un quarto l’uomo era steso dalla sua parte del letto, totalmente sfinito.
Russava, dormiva soddisfatto.

Era successo.

*

La lavatrice spesso faceva i capricci. Aveva lasciato Silver seduto sul pavimento, quella scena era la sua immagine santa; stampata a colori nella sua mente, rimetteva in moto il suo corpo quando la mattina era troppo difficile alzarsi. Era così: Silver con una ciocca di capelli rossi tirata dietro ad un orecchio armeggiava con gli attrezzi, la vecchia cassetta in ferro accanto a lui - ormai non si scomodavano neanche a rimetterla a posto: tutto cadeva a pezzi in quel posto, tutto, tranne loro.
“Ciao, sorellona” l’aveva salutata sorridendo con la sua voce adesso adulta e gentile, i suoi occhi trasparenti, finalmente espressivi, la sua maglietta di un generico anime mecha con le maniche arrotolate fino ai gomiti - la cupola aveva già coperto tutto, il ronzio non faceva dormire la popolazione, la gente impazziva intrappolata come pesci in una boccia; ma lui non aveva mai freddo, non si lamentava mai del ronzio né della mancanza del sole. Era felice della sua piccola bolla di casalinga banalità; e Blue, di riflesso, lo era a sua volta. Nonostante lo spingesse a trovarsi una ragazza e a sistemarsi era grata della sua compagnia, era bloccata tra il volerlo vedere innamorato e al voler vivere per sempre in quel limbo in cui non avevano età, lavorare per poi tornare a casa e litigare su chi avesse il diritto di scegliere cosa guardare alla tv, condividere gli snack che raramente potevano permettersi, prendersi in giro senza vera malizia.
Blue era andata a fare la spesa sorridendo seppur tra bollette e affitto avesse appena venti dollari nel portafogli, aveva salito le scale dello scantinato in cui vivevano canticchiando, e le aveva riscese allo stesso modo neanche mezz’ora più tardi. La porta era socchiusa.

*

Era stata furtiva per una vita intera, Blue.
Quella notte non ebbe problemi a sgattaiolare fuori dal letto senza fare alcun rumore.
Era nuda ancora quando si abbassò sul cappotto dell’uomo, cercando e trovando a colpo sicuro le chiavi nella tasca destra.
Aprì l’armadio e prese i vestiti che avrebbe indossato.
Roba comoda, che le permetteva di muoversi più agevolmente. Sneakers, non tacchi alti.
E una tuta nera, di quelle con la zip.
Si vestì sul pianerottolo, la vecchia signora Lewandowski, sua vicina, non si sarebbe svegliata a quell’ora del mattino.
Se non vi fosse stata la cupola, probabilmente avrebbe avuto la possibilità di vedere l’alba nascere dietro le montagne che proteggevano il Lago d’Ira, ma Mogania era diventato il paesaggio nella sfera di neve che vendevano ai mercatini di Natale.
Blue non ricordava l’ultima volta che lo avesse festeggiato. Ogni giorno era freddo e buio, lì, dannatamente uguale.
Stringeva tra le mani il mazzo di chiavi di Edmund Holm, e si apprestava a percorrere nuovamente Pryce Street, per raggiungere la via principale della cittadine.
Era stanca ma aspettava da troppo tempo quel momento, e l’adrenalina le faceva dimenticare totalmente il fatto che le gambe le dolessero e che avesse ancora i segni dei morsi dell’uomo sul seno destro.
Quello, e tutto ciò che aveva dovuto subire in quegli anni bui, era il prezzo da pagare per potersi riguadagnare un posto in paradiso.
A quell’ora, per strada, non c’era nessuno. Il freddo soffiava ma lei correva attraverso le gelide correnti artificiali, ripensando agli orrori che gli occhi nei suoi occhi, quelli di Silver, dovettero subire.

*

“Sil?” aveva chiamato, ricevendo nessuna risposta. La cassetta degli attrezzi era ancora lì, aperta, sul pavimento accanto vi erano il cacciavite, le viti arrugginite smontate dalla lavatrice. Dall’uscio poteva vedere l’intero spazio in cui vivevano, il materasso condiviso, la coperta calciata via, il cassetto del comodino aperto… Strano, Silver era un maniaco dell’ordine, si arrabbiava spesso se Blue lasciava socchiusa qualche anta. Una Pokéball era rotolata fino al centro della stanza, sotto al tavolo su cui mangiavano - una sedia era capovolta, quasi nascosta dall’altra accanto a lei.
Disordine, non abbastanza da inquietare qualcuno che non fosse Blue; per Blue era come ritrovare casa totalmente sottosopra, con i libri giù dalle librerie e le lenzuola fuori dai cassetti, i casi rotti e le gente strappate.

*

La Palestra di Alfredo era davanti ai suoi occhi. La porta sul retro non era mai custodita ma il grosso e antico ingranaggio che proteggeva l’ingresso era impossibile da scassinare.
Lei però stringeva tra le mani il mazzo di chiavi di Edmund Holm, che era il tuttofare della struttura.
Lavorava lì da quasi trent’anni, era poco più che un ragazzino quando conobbe Alfredo.
Si fidava di lui, il Capopalestra, e gli consegnò per questo la grossa e pesantissima chiave d’ottone.
Blue la ricordava alla perfezione.
Calzò perfetta nella serratura, che scattò silenziosa poco dopo.
La ragazza spinse lentamente la porta, che rispose cigolando. Nessuno però l’aveva sentita.
Mosse passi lenti e stentati nella Palestra, dove il buio regnava sovrano. Lei però conosceva a memoria ogni singola piastrella poggiata sulle pareti di quel posto, e sapeva che lì accanto c’era la sala macchine, dove le varie caldaie e i vari impianti d’areazione stazionavano.
Doveva dirigersi lì.
Sospirava, col cuore che batteva per ogni rumore che la notte che stava finendo stava emettendo. Sapeva che la scalinata che aveva davanti l’avrebbe portata nel grande corridoio oltre la sala lotta, dove Alfredo un tempo esercitava il ruolo di Capopalestra.
La salì. Il legno sotto i suoi piedi scricchiolava. Il cuore batteva.
Quando aprì la porta l’odore, quell’odore di vecchio e chiuso, le pervase i polmoni.
Ricordava che quando era più piccola, proprio come allora, sgattaiolava di notte per la Palestra, per poter andare da Silver e assicurarsi che stesse bene.
Ricordava ancora il suo sguardo, quando lei entrava nella sua camera. L’aspettava sveglio.
E malinconica continuava il suo percorso verso la sala macchine, rivedendo ogni attimo della sua prigionia in un secondo.
Rivedeva il mangiare rancido che veniva dato loro a pranzo e a cena, e i bicchieri di vetro sporchi di calcare. Rivedeva le scene in cui veniva maltrattata da Karen e Pino, prima che imparasse a farsi rispettare.
Rivedeva le unghie di Silver saltare.
La pelle le si accapponò.
Ripensò al fatto che s’era sempre impegnata, lì dentro, per trovare il lato positivo della vita, e spinse la porta della camera delle caldaie.
Lì faceva sempre caldo, lo ricordava, e non riusciva a dimenticare i posti dove l’abitudinario tuttofare di Mask of Ice riponeva gli attrezzi.
Il martello era nella cassetta di ferro, quella rossa, nell’armadietto arrugginito sulla destra.
Lo aprì.
Il martello non fu difficile da trovare.

*

“Silver?” lo chiamò, e questa volta sentiva il cuore pompare in gola. La porta del bagno era spalancata, il tragitto fino ad essa fu straziante e confortante ad un tempo, sicché fu l’ultimo momento in cui Blue aveva ancora potuto credere nella felicità.
Una singola goccia scarlatta sul muro aveva guidato i suoi occhi blu giù, verso altri schizzi che si intrecciavano come i capelli del suo Silver; sul pavimento

*

Nessuno si muoveva, nessuno parlava, nessuno respirava.
La Palestra era totalmente desolata, il cuore di Blue batteva.
Stringeva il martello con forza, con le mani sudate e leggermente tremanti.
Quell’incubo in cui era stata gettata stava per finire.
Salì le scale, lentamente, coi piedi leggeri di una donna senza peso e percorse il corridoio dove da bambina aveva rubato a Karen il fermaglio coi brillantini.
La prima, la seconda, la terza stanza.
La quarta era la sua.
Si fermò, il martello in mano e la paura che le sveglie suonassero.
Forse non doveva perder tempo ma voleva davvero rientrare lì dentro, per vedere il luogo dove aveva dormito durante gli anni peggiori della sua vita.
Aderì alla porta, poggiando la mano libera contro la superfice.
Si chiese se vi fossero bambini, lì. Cioè, se ve ne fossero ancora.
Ma quando superò l’uscio si rese conto che Alfredo non era più quell’uomo, anche se lì nulla era cambiato: vedeva una brandina scomoda col materasso sottile, uno sgabello, un gancio al muro, i mattoni neri a vista e la finestrella in alto, a quattro metri, delle dimensioni di un mattone e senza vetri.
Se si concentrava riusciva a vedere una se stessa più giovane dormire rannicchiata nell’angolo tra il muro e il materasso, con la faccia premuta contro il cuscino.
Nessuno avrebbe mai dovuto vederla piangere.
Ma in un punto c’era qualcosa che nessuno avrebbe mai trovato. Spostò il letto e si abbassò, inginocchiandosi.
Sapeva benissimo quale mattone estrarre dal muro.
Una piccola fessura, profonda quanto uno dei libri che Alfredo leggeva spesso, conteneva un piccolo oggetto bianco.
La sua maschera. Sorrise e la raccolse, per poi tornare ancor più cupa.
Attese un secondo, in cui il cuore finisse di batterle così forte. Prese coraggio e l’appoggiò sul viso.
Fortunatamente non le andava più.
La nascose sotto la felpa. Poi carezzò quelle pareti, fredde e ruvide, mentre usciva lentamente e tornava sui suoi passi.

*

Lo sguardo di Blue si perdeva. Non distingueva più dove cominciavano le ciocche e dove finiva il sangue, e in tutto ciò, gli occhi argentee di suo fratello, che la fissavano vuoti, era l’unica cosa riconoscibile.

*

Salì rapidamente al piano superiore. La camera di Alfredo era proprio l’ultima.
La raggiunse in pochi secondi e spalancò la porta, stringendo forte il martello.
Ormai non le interessava più che lui la sentisse.
“Sono venuta a prenderti”.
Il costume di Mask of Ice era sulla sinistra, con la maschera bianca impolverata e il lungo mantello nero, sporco di fango sui lembi inferiori.
Nel letto, nel grande letto di fronte a lei, con le bardature dorate e le pesanti e preziose coperte rosse, c’era lui.
L’uomo, ormai vecchio, aprì lentamente gli occhi.
Passò con fatica da steso a seduto e guardò la figura che brandiva il martello proprio ai piedi del suo giaciglio.
“Fi… finalmente…. Finalmente sei arrivata” disse, tossendo poi.
Era debole.
Quello che un tempo era un omino basso e pieno di sé era diventato un inutile pezzo di carne che si stava imputridendo; i capelli, i pochi rimasti sulla sua testa raggrinzita, erano totalmente candidi.
Gli occhi, un tempo vispi specchi di quell’anima dannata, erano ora strette fessure nelle quali la luce, seppur artificiale, non penetrava.
Il bastone che gli serviva per camminare era accanto al comodino di mogano, sul quale vi erano uno spesso paio di lenti da vista.
Si allungò a fatica e le prese, poggiandosele sul naso.
“Blue… vero?”.
Lei annuì.
Gli occhi dell’uomo si spostarono sul martello e il sorriso gli nacque immediatamente sul volto.
“Sei qui per Silver”.
“Vendicherò ciò che hai fatto”.
Blue fece un passo alla sinistra del letto, per avvicinarsi, mentre lo vedeva annuire.
Le si fermò a pochi metri e poi lasciò che una coperta di silenzio li avvolgesse.
Lo vide annuire.
“Hai ragione. Ho fatto delle cose orribili… Ho ucciso e rapito. Ho creato dei killer… Proprio come te. Guardati… Sei qui per vendicare il figlio di Giovanni e ammazzarmi, vero?”.
Blue rimase muta, stringendo ancor più forte il manico dell’attrezzo.
“Ma vedi tu…” sorrise ancora. “Sei diventata una donna meravigliosa… Mi hanno detto che fai la puttana”.
“Tu mi hai rubato la vita” ribatté l’altra.
“Io non sono più quell’uomo…”.
“Tu!” urlò poi, sentendo l’eco rimbombare nelle fredde pareti della Palestra. “Tu mi hai rubato la vita!”.
“Non rapisco più bambini… Non voglio più che succeda nulla di male… Io ho solo cercato di proteggervi…”.
“Non devi più parlare!”.
Alzò il martello e si avventò su di lui.

*

Silver, il meraviglioso Silver, era ora irriconoscibile. La mandibola era spaccata e i denti spezzati e la carne strappata e il cranio sfondato; il suo bellissimo fratello era stato sfregiato e ucciso sul pavimento del bagno. Accanto alla sua mano, quella da cui si era strappato le unghie pur di proteggerla, vi erano un martello, insanguinato dalla parte strappachiodi, e un volto dipinto nel sangue con fin troppa cura.
La firma di Alfredo.

*

Saltò sul letto, Blue, e cominciò ad abbassare il martello con vigore contro il volto dell’uomo.
Le sue ossa si frantumarono come fossero stati rametti secchi, sotto i suoi colpi.
Il sangue schizzò ovunque, imbrattando il muro e le coperte.
Sporcandole il viso, sul quale solo i due grossi occhi blu risaltavano.
Le labbra erano interamente intrise del sangue del carnefice di suo fratello.
Del suo rapitore.
E lo colpì così tante volte che non rimase più nulla dell’uomo. La sua carcassa cadde sulla destra, mentre i polmoni di Blue cercavano di recuperare quanta più aria riuscissero.
Il sollievo che avrebbe dovuto provare era invece disperazione. Le lacrime scendevano copiose sul suo viso, costruendo rapide vistosi solchi nel sangue che le bagnava il viso e finendo per colare sul mento, dal quale si tuffavano giù.
Era finita.
Aveva liberato la propria anima e vendicato quella di Silver.
Aveva ucciso l’uomo che l’aveva rapita e fatta stuprare per anni.
Le forze la stavano abbandonando; ricadde su quel letto sporco di sangue e cominciò a ridere isterica, durante quel pianto nervoso.
I capelli e le mani affondavano nel caldo e rosso liquido che rivestiva l’intero letto, ma lei continuava a ridere. Stringeva ancora quel martello.
Era finita davvero.

Si riprese diversi minuti dopo, quando di quell’euforia malata non era rimasto niente più.
Si alzò, gettando l’arma del delitto per terra e macchinando velocemente un nuovo piano.

Uscì da quella stanza indossando il lungo mantello nero e la maschera bianca.
Tutti si erano voltati, al suo passaggio, stupiti.
“Alfredo ha indossato di nuovo i panni di Mask of Ice” dicevano.

Ogni passo che muoveva a Mogania, quella nuova Mogania senza dittatore, era come un nuovo giorno.
Sapeva che nulla fosse effettivamente cambiato ma sentiva come se il sole splendesse nuovamente sulla sua pelle.
Arrivò rapida al Lago d’Ira, e quando le puttane la videro con quegli abiti non la riconobbero, dandosi immediatamente alla fuga, in preda al panico.
A Blue non interessava delle puttane.
Ormai quella vita non le apparteneva più.
No.
Anzi, era lì per un motivo ben preciso; circumnavigò le rive del lago fino a raggiungere il bosco, che Silver tanto aveva adorato durante la sua breve esistenza.
Nonostante tutti gli alberi si assomigliassero, bruciati e secchi, uno era inconfondibilmente più alto degli altri.
Si diceva che fosse il primo albero del bosco d’Ira, ma Blue lo aveva sempre visto come la tomba di suo fratello.

*

Per quanto strofinasse il sangue per lei sembrava esserci sempre un alone residuo, e quindi non andava più al lavoro, per giorni interi restava inginocchiata in mezzo alla candeggina a strofinare e strofinare. La casa era infestata dal fantasma di suo fratello, ne era sicura, perché ogni volta che si muoveva per casa poteva vederlo scappare da Alfredo, e sempre nei punti in cui si convinceva di averlo visto scappare trovava microscopiche goccioline rosse, che alla fine una volta unite delineavano il suo percorso: si era alzato, pensando di vedere Blue, invece era corso via, schizzando verso il comodino, calpestando il letto con le scarpe. Alfredo lo aveva colpito la prima volta, la Pokéball che aveva in mano gli era caduta ed era rotolata fin sotto al tavolo; lui l’aveva seguita, aveva spinto via la sedia, ma Alfredo gli era di nuovo addosso, infilzava la parte artigliata in mezzo alle sue costole. Silver si sottraeva allora, con un balzo era tra il tavolo e la porta del bagno, con la parte piatta del martello Alfredo lo colpiva in volto; la sua mandibola si spaccava, i suoi denti si spezzavano lacerando la lingua. E la sua bocca era piena di sangue e la sua testa girava, cadeva dentro il bagno, in ginocchio; il suo corpo immobilizzato dallo shock emorragico, Alfredo lo colpiva altre tre volte alla nuca, poi carezzava i suoi capelli, e firmava la sua opera nel sangue. Blue aveva cambiato casa subito dopo, aveva lasciato indietro tutto, tutto tranne una cosa: ciò che aveva stroncato la vita di suo fratello.

*

Levò rapidamente la maschera, non appena arrivò davanti alla grossa quercia.
Sul tronco vi erano ancora incisi i loro nomi.

Blue e Silver – the Runaways!

Sorrise a rivedere quella scritta.
La carezzò e chiuse gli occhi. Suo fratello ora sorrideva.
Alzò la felpa ed estrasse la sua maschera, poggiandola per terra.
Sospirò.
Aveva sempre pensato di essere la prima responsabile di quell’omicidio; sapeva che Alfredo non li avrebbe uccisi entrambi, dopo la loro fuga, perché conosceva il loro legame.
Lasciarne in vita solo uno sarebbe stato molto più doloroso.
Era sicuro che, all’epoca, fosse stato quasi deliziato dal fatto che a vedere la vita dell’altro stroncato fosse stata Blue, prima disertrice nel suo impero del terrore.
Ma ora Alfredo era all’inferno.
“Ciao fratellino. Sarai sempre con me”.
Riabbassò la maschera di Alfredo e tornò sui suoi passi.
La città si stava appena svegliando ma lei aveva una sola direzione.
Girò verso sinistra e camminò per un chilometro buono, vedendo le persone che evitavano il suo sguardo e scappavano via.
Mask of Ice è soltanto il passato… 
Era quello che ripeteva a se stessa.

I cancelli per l’esterno erano davanti a lei. Decine di uomini che appartenevano alle Truppe di Ghiaccio lo videro e s’inchinarono immediatamente.
Il cuore di Blue batteva.
Le porte si aprirono e lei uscì da Mogania.
Quando si richiusero cominciò a correre velocemente, gettando quella maschera e quel mantello, e spingendo forte fino a quando i polmoni non le bruciarono.
Ma quando si fermò si rese conto che tutt’intorno non vi era altro che deserto.


Note d'Autore
Salve Couragers, spero che stiate apprezzando i nostri lavori per il CCD tanto quanto noi abbiamo apprezzato produrli. Sono ritornata nel fandom proprio per questa occasione, mi ritengo fortunata perché mi è capitato un compagno di scrittura, un personaggio e dei temi davvero interessanti. Mentre scrivevo sono successe tante cose nella mia vita privata, soprattutto durante la morte di Silver, ed un po’ spero di aver trasmesso a Blue l’instabilità che sentivo.
Vostra, Linn. x 
Qui Andy.
Eh... Non mi dilungo quasi mai nelle note del post, quanto in quelle del pre-lettura. Valentina ha poi scritto gran parte delle cose importanti, che ribadirò comunque: ci siamo divertiti molto a scrivere assieme, io e lei. Questa era la prima volta che ci siamo trovati cheek to cheek a ideare una trama assieme. Siccome gli elementi che ci sono stati sorteggiati lo rendevano favorelo, tra cui quel futuro distopico che tanto ci ha dato in termini di libertà artistica, abbiamo deciso di stendere una storia sulla base di qualcosa che già esisteva, come il rapporto burrascoso tra i due Dexholder e Alfredo, in una salsa ovviamente AU, dove tutto era tutto e niente era niente.
Blue puttana, ovviamente idea mia. Valentina ha goduto nella descrizione dell'omicidio di Silver. È stata bravissima, e ovviamente gran parte del merito va a lei, che è una profonda conoscitrice di questa parte del manga e del rapporto tra Silver e Blue.
Spero che la storia vi sia piaciuta, come anche le altre che hanno scritto i miei colleghi Couragers, per il Courage Community Day. Un grazie infinito.

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